Che quella dei millennials fosse la generazione più povera dei padri e addirittura dei nonni lo sapevamo già da tempo. Molti di noi lo vivevano quotidianamente avendo il coraggio di guardare oggettivamente ai propri figli, altri lo capivano alla svelta leggendo i giornali che di anno in anno ci informano di una disoccupazione giovanile crescente e irreversibile. Bastava non vivere isolati. Ci viene spiegato da amici, conoscenti, colleghi che ci raccontano di avere figli con due lauree costretti a emigrare in altri Paesi o a vivacchiare di stage, master, lavoretti precari e saltuari. Al Sud la disoccupazione giovanile tocca punte dell’80 per cento in certe aree. Quanto spreco di risorse, di umanità, di intelligenze vive e vitali.
Il primo a dare l’allarme sull’inversione di una tendenza che durava da generazioni, ricordo, è stato il sociologo Ilvo Diamanti, con la consueta lucidità corroborata da dati sociologici e scientifici. Poi arrivarono tutti gli altri, come la piena di un fiume: articoli, inchieste, rapporti. Ricordo un editoriale di Edmondo Berselli dal titolo "La generazione immobile” pubblicato sulla rivista “Il Mulino”. E così si arriva a ieri, quando il cinquantesimo rapporto Censis ha chiuso il cerchio e storicizzato ufficialmente la fotografia di questo disgraziato Paese senza culle e con i giovani finiti nel gorgo di un proletariato senza prole. Sarà sempre peggio se nessuno più pensa a fare figli.
Il boom di “voucher”, ovvero di “lavoretti”, 70 milioni in sei mesi nel 2016, dice molto più di un trattato sulla disoccupazione giovanile. Il rapporto Censis parla di un’Italia sfiduciata e insicura, che si rifugia nel risparmio e nelle rendite immobiliari. Un’Italia “ruminante”, come recita il rapporto, dedita a masticare sempre al stessa ricchezza, senza mai avventurarsi in strade nuove. Gli under 35, vittime di un “ko economico”, hanno un reddito inferiore del 15 per cento al resto della popolazione e del 26 per cento più bassi dei loro coetanei nel 1991. C erto, sono mantenuti e coccolati da genitori e nonni, spesso si ritrovano a fare lo stesso mestiere dei padri, non se ne vanno mai via di casa, "vedono gente e fanno cose", come aveva previsto Nanni Moretti, già negli anni '70 e pazienza per chi nasce o diventa orfano.
Più interessante e complesso parlare della cause che hanno portato a questa situazione e che continuano a mantenerla. Innanzitutto, spiega il Censis, l’occupazione, anche se in crescita, è a bassa produttività e dunque non permette di fare quel salto necessario a far crescere i redditi. Ma il Censis non scrive quello che tutti sanno: la tendenza a considerare i giovani come i nuovi schiavi dell’epoca postmoderna, gli iloti del nuovo millennio, pronti a tutto, utili per i “lavoretti” ma non per un progetto di lavoro a tempo indeterminato, integrato nel sistema. Nel sistema rimangono le vecchie generazioni, più numerose e più potenti (e c’è chi riconduce proprio al rapporto sfavorevole giovani-vecchi la chiave di tutto) con la loro volontà di non lasciare spazi e di limitarsi ad “accudire” le nuove generazioni pur di non farsi da parte. Perché il Censis non può accertare con dati scientifici quel che tutti sanno: quella sorta di volontà collettiva delle vecchie generazioni a tenersi tutto a costo di sclerotizzare il sistema, a non farsi da parte per dare spazio al futuro dei loro figli. Davvero pensiamo che in un Paese di culle sempre più vuote questa tendenza cambierà?