Cronache americane. George W. Bush e Colin Powell, che furono l’uno Presidente degli Usa (2001-2009) e l’altro segretario di Stato (2001-2005), annunciano che non voteranno per Donald Trump alle prossime elezioni presidenziali perché Trump “mente sempre”. Siamo nel pieno delle polemiche sull’assassinio di George Floyd da parte dei poliziotti di Minneapolis e Trump sta giocando su questa crisi drammatica per costruirsi un’immagine “legge e ordine” da proporre all’elettorato bianco. Cinico e spietato, non c’è dubbio. In più, Trump non è certo la bocca della verità. E anche quando non spaccia frottole, è così ondivago e umorale da spiazzare anche l’uditore meglio disposto.
Detto questo, ci sono persone che proprio non dovrebbero parlare. Non di Trump, ma di nulla che riguardi la politica e la verità. E tra queste ci sono appunto George Bush e il suo segretario di Stato Colin Powell. In un mondo migliore e più giusto, in un mondo cioè in cui politica e verità riuscissero a stare nella stessa frase senza imbarazzo, Bush e Powell dovrebbero essere sottoposti al giudizio di un tribunale internazionale.
Nel 2003, infatti, Bush fu il Presidente che, dopo gli attentati delle Torri Gemelle, volle e assolutamente volle invadere l’Iraq accusando Saddam Hussein, dittatore fin che si vuole ma estraneo a quegli attentati, di essere un complice di Al Qaeda (falso, e infatti furono epurati gli agenti dei servizi segreti Usa che sapevano e sostenevano il contrario) e di possedere un arsenale di armi di distruzione di massa pronte all’uso. E Colin Powell, prestigioso ex generale e primo nero ad arrivare così in alto sulla scala del potere esecutivo Usa (superato, finora, solo da Barack Obama), il 5 febbraio del 2003 si prestò a mentire all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, sostenendo di avere le prove dell’esistenza dell’arsenale e della volontà di Saddam di servirsene.
Dei due casi, il peggiore è forse quello di Powell. Bush era chiaramente un figlio di papà, messo lì perché aveva fatto politica (era stato governatore del Texas) e sapeva parlare. Ma a quei livelli gli Usa li governavano il suo vice Dick Cheney e il ministro della Difesa Donald Rumsfeld. Powell no. Lui era stato consigliere per la Sicurezza nazionale con Ronald Reagan. A 52 anni (record assoluto tuttora imbattuto) era diventato capo dello stato maggiore congiunto delle forze armate americane, la più alta posizione possibile nella gerarchia militare. Aveva gestito l’invasione di Panama e l’Operazione Desert Storm nella guerra del Golfo del 1991. Powell sapeva che cos’era una guerra e sapeva quali sono le informazioni e le precauzioni da prendere prima di intraprenderne una.
Invece scelse di andare davanti ai 193 Paesi dell’Onu e raccontare frottole, perché Saddam non aveva alcun rapporto con Al Qaeda e non aveva armi di distruzione di massa. Scelse di dare una copertura a quelle frottole. Disse all’Onu: “Ogni affermazione che farò è sostenuta da prove, prove concrete… Porterò fatti e conclusioni basati su un profondo lavoro di intelligence… Nella mia mente non ci sono più dubbi”. Menzogne che contribuirono a far partire un’invasione immotivata, in seguito alla quale sono morte centinaia di migliaia di persone. Che ha provocato disastri immani. Che ha generato un’onda lunga di guerre e terrore arrivata fino ai giorni nostri, con le feroci imprese dell’Isis, movimento nato appunto tra i terroristi iracheni.
Il sito The Intercept (quello che di recente ha smascherato gli intrighi del presidente brasiliano Bolsonaro) ha molto lavorato su quella prodezza di Powell (https://theintercept.com/2018/02/06/lie-after-lie-what-colin-powell-knew-about-iraq-fifteen-years-ago-and-what-he-told-the-un/) e ha concluso che l’ex segretario di Stato mentì sapendo di mentire. Nel 2008, a sua volta, Powell ha pubblicato un libro in cui sostiene di essere stato ingannato (ma da chi?) e chiede scusa per quelle menzogne. Chiedere scusa per una strage di immense proporzioni pare un pò poco. Un lungo silenzio sarebbe stato forse più consone alle dimensioni del problema. Anche perché Powell, per tutta una vita repubblicano e arrivato al vertice con le amministrazioni repubblicane, ha cambiato parere anche in questo. È diventato un sostenitore dei candidati democratici, prima di Hillary Clinton e ora di Joe Biden. Nulla di male, ovviamente, ma un po’ tanto banderuola.
Il risalto che viene dato al parere dei Bush e Powell, e la totale assenza di critiche nei loro confronti, dipende da due fattori. Uno, più che legittimo, è il dissenso rispetto alle politiche di Trump, un Presidente divisivo se mai ce n’è stato un altro. L’altro è la dannata abitudine a credere nel detto “il nemico del mio nemico è mio amico”. Grosso errore, perché spesso il nemico del mio nemico non vede l’ora di sbarazzarsi di lui per poi fare i conti con me. Che, tra l’altro, è proprio ciò che successe con Saddam Hussein: che era amico degli Usa finché era nemico dell’Iran. Quando l’Iran non fu più una minaccia, toccò a lui diventare il nemico degli Usa. In altre parole: potrei anche voler attaccare Trump ma non vorrei mai avere Bush e Powell al mio fianco. Non riuscirei a fidarmi, con quei precedenti.