John e Diane Foley, genitori di James.
Parla con voce ferma e gentile, anche se talvolta si emoziona soprattutto quando ricorda Jim bambino, la signora Diane Foley. È la mamma di quel James Foley che gli estremisti islamici dell’Isil (le milizie dello Stato islamico della Siria e del Levante, ndr.) hanno decapitato senza pietà il 19 agosto davanti a una telecamera. Mai la voce di Diane si lascia però rompere dal pianto. Le lacrime sono già state archiviate, almeno in pubblico, per lasciare spazio a una madre che trova la forza nella fede. «Così come aveva fatto mio figlio», confida, e nella missione cui si sente chiamata: portare avanti il lavoro di James, giornalista impegnato nel dare voce agli ultimi in nome della verità. iane e il marito John in qualsiasi intervista si sono fatti vedere insieme, spesso mano nella mano in una stretta che sembra ancorare entrambi a un punto solido, lontano da quel baratro di disperazione che li potrebbe inghiottire da un momento all’altro. Anche in questo caso, Diane ci chiede di condividere con John la conversazione.
Un'immagine d'archivio di James Foley, 40 anni, giornalista freelance americano, autore di vari reportage pubblicati da importanti media d'oltreoceano: il 22 novembre 2012 è stato rapito nel Nordovest della Siria; il 19 agosto è stato decapitato dall'Isil, l'esercito dello Stato islamico della Siria e del Levante.
Signora Foley, in una lettera alla Marquette University, college
gesuita e sua ex università, James descriveva con passione il potere
della preghiera. Quanta fede c’era in ogni decisione e azione presa da
suo figlio?
«Jim era stato cresciuto nella fede e come cattolico. Di sicuro ciò è
stata per lui una base solida, anche se da bambino alla fine faceva
soltanto ciò che gli dicevamo io e suo padre. Siamo una famiglia
cattolica molto tradizionale e lui ha sempre creduto fortemente in Dio.
Ma è stato da adulto, quando è andato alla Marquette University di
Milwaukee, che la sua fede si è davvero rafforzata. Lì è stato esposto
al lavoro con i poveri e penso che ciò abbia accresciuto il suo credo e
gli abbia fatto sentire di essere stato investito da una forte missione,
che era quella di dare voce a queste persone».
E già durante il primo rapimento, nel 2011 in Libia, quella fede lo aveva aiutato a superare un momento così difficile...
«Non solo. Aveva anche capito quanto le preghiere delle persone in tutto
il mondo lo avessero aiutato. Quando era tornato a casa dopo 44 giorni
di prigionia in Libia, era rimasto incredibilmente colpito da questa
partecipazione. Per questo, anche se in Siria non era possibile alcuno
scambio di informazione, sono certa che Jim sapesse di non essere solo.
Gli ostaggi che erano con lui e che sono stati liberati mi hanno
confermato come lui trovasse forza in questa consapevolezza, oltre che
nella preghiera».
James Foley con la nipotina.
In Libia era ricorso anche al Rosario. Era solito utilizzarlo anche a casa?
«Non così tanto. Forse in seguito, quando non viveva più con noi ed era
cresciuto in lui quel senso di compassione che lo caratterizzava. So che
più sofferenza vedeva attraverso il suo lavoro, più la sua fede e il
suo senso di missione aumentavano al punto che insegnare ai bambini non
gli bastava più. Voleva scrivere le storie e riportare le condizioni di
tutti gli esseri umani durante un conflitto, ovunque nel mondo».
Quando decise di dare una svolta alla sua carriera professionale, passando dall’insegnamento al giornalismo?
«Jim era sempre stato un avido lettore, amava i libri, e aveva sempre
avuto uno spiccato interesse per il mondo. Quindi, nel giornalismo trovò
il modo migliore per esprimere sia questo suo interesse per le storie
della gente che quello per la bellezza di diversi Paesi».
James col fratello Michael e i suoi due figli.
Spesso però il giornalismo si concentra su storie che fanno rumore
piuttosto che sulla vita di personaggi cosiddetti “comuni”. James ha mai
espresso frustrazione per questa dicotomia?
«No. Aveva deciso di essere un free-lance proprio per coprire le storie
che sentiva. Ciò gli rendeva la vita più difficile, ovviamente, perché
non guadagnava tanti soldi e non aveva protezione, ma aveva la libertà
di ricercare la verità come voleva».
Mai avuto il desiderio di far parte di una redazione?
«Forse sì, ma più avanti o forse, credo, gli sarebbe piaciuto diventare
un attivista. Aveva già fatto dei lavori per Human Right Watch, di cui
eravamo molto fieri. Dopo tutto era ancora giovane in questa
professione. Si trattava per lui di una seconda carriera, iniziata da
meno di dieci anni».
Il rapimento e la barbara uccisione di James Foley ha straziato l'intera America.
Avete mai cercato di fermarlo, soprattutto dopo l’esperienza in Libia?
«Oddio, molte volte. Aveva così tanti doni e noi lo incoraggiavamo a
trovare altri modi per esprimere questa sua passione. Ma lui non ne
voleva sentir parlare, voleva tornare da quella gente. Aveva iniziato ad
andare in Siria già nei primi mesi del 2012 e nel momento in cui era
stato rapito, a novembre di quell’anno, aveva già parecchi amici siriani
e si preoccupava per loro e per il loro desiderio di libertà. Era
impossibile dissuaderlo a quel punto».
In dicembre avete avuto degli scambi di e-mail con i suoi rapitori.
Avete mai avuto l’impressione che fosse possibile in qualche modo
arrivare ai loro cuori?
«Abbiamo pregato così tanto per quello, ma a un certo punto hanno
interrotto la comunicazione, così non sappiamo davvero se ciò sarebbe
stato possibile. Mi consola però sapere, come mi hanno detto gli ostaggi
rilasciati, che Jim ha sempre cercato di accendere una luce di speranza
nel suo cuore e in quello degli altri. Per questo siamo così grati a
Dio per questo figlio».
«Dio gli è sempre stato con lui e gli altri ha dato la forza», dice Diane Foley, la mamma di James, il giornalista americano ucciso dall'Isil. Nella foto: la copertina del settimanale Credere.
Non avete mai perso la fede?
«La mia forza deriva dalla mia fede. Dio ha dato a Jim una forza che lui
non aveva prima. Per questo siamo grati per Jim e per tutte le persone
che hanno pregato per noi. E noi, come famiglia, speriamo di portare
avanti l’eredità che Jim ha lasciato in questo mondo».
Ha trovato conforto anche nella telefonata che le ha fatto il Santo Padre?
«Siamo rimasti molto colpiti dalla sua chiamata, soprattutto perché
anche lui in quel momento stava vivendo dei lutti in famiglia».
Ci può dire qualcosa della fondazione che volete creare in nome di James?
«Speriamo che possa proteggere altri giornalisti impegnati su fronti di
guerra e che possa aprire un dialogo a livello internazionale su come
debbano essere affrontati i negoziati per gli ostaggi».
La lapide eretta in memoria dei corrispondenti di guerra nel cimitero di Arlington.
Suo figlio Michael ha criticato il Governo americano dicendo che avrebbe dovuto fare di più. Concorda?
«Ovviamente, avremmo voluto che fosse liberato, ma sappiamo che la
situazione era difficile. Con questa fondazione speriamo di aiutare
altre famiglie e il governo Usa ad affrontare meglio questo tipo di
crisi in futuro. Speriamo che Jim sia stato una specie di sveglia per il
mondo anche su questo fronte».
Alcune persone chiedono che James sia riconosciuto come martire. Lei che cosa ne pensa?
«La sua morte e le torture che ha subìto sono state in qualche modo
simili a quelle di nostro Signore e penso che Dio gli abbia dato quella
forza così come è sempre stato con lui. Per questo, sì, lo posso vedere
in un certo senso come martire moderno. Ma ciò per cui prego è che lui
non sia morto invano. Spero che la gente nel mondo abbia provato
abbastanza orrore per la sua morte da provare più compassione, come lui
voleva. Prego perché mio figlio non sia morto invano».