Il dottor Gianfranco Di Maio (Foto Sinigalliesi). In copertina, il medico durante una delle tante missioni africane
- Dottor Di Maio quali sono i principi della sua azione umanitaria?
«Sono necessariamente funzionali agli obiettivi, e se si pretende che la propria azione sia “umanitaria”, essa deve prescindere da ogni forma di discriminazione, razziale, religiosa, politica e filosofica; deve rivendicare totale libertà operativa, e pertanto è neutrale e imparziale tra gruppi e Stati in conflitto; per tener fede all’impegno deontologico professionale deve mantenersi indipendente dai poteri militari, economici e finanziari. E infine c’è la consapevolezza del rischio personale assunto, per cui chi si associa non può farlo per denaro o per carriera».
- Quali le sfide del nuovo millennio?
«Gli spazi per un’autentica azione umanitaria si stanno progressivamente riducendo. Agli operatori umanitari è sempre meno riconosciuta la legittimità di un posizionamento neutrale e indipendente dalle forze contrapposte, e siamo frequentemente accusati di venire manipolati da interessi di parte. Anche in passato questo genere di accuse erano frequenti, perché dei testimoni imparziali risultano sempre scomodi, ma le condotte aggressive di cui siamo divenuti oggetto in alcuni contesti hanno oggi superato il livello di guardia. Inoltre partecipiamo della crisi globale, per cui si assiste a una riduzione di quelle risorse provenienti da fondi privati che fin qui hanno garantito l’indipendenza dalle politiche degli Stati».
- Umiltà, coraggio, intelligenza, pazienza. Quali di queste qualità bisognerebbe coniugare per suscitare nel cuore e nella mente dell’uomo sentimenti e pensieri di pace?
«La pace per essere autentica va provata nel proprio cuore, e come diceva qualcuno, non è scindibile dalla ricerca di giustizia. In questo senso l’uso paziente dell’intelligenza e quello intelligente della pazienza, mi sono sembrate finora le armi migliore per conquistare e difendere quello spazio umanitario cui si faceva riferimento, essenziale per curare le persone, e se possibile salvare le loro vite».
Di Maio con alcuni collaboratori locali di Medici senza frontiere.
Msf ha contribuito a creare un metodo d'intervento nelle emergenze, senza dimenticare la testimonianza
- Come e quando è maturata la sua vocazione a una professione medica al servizio delle popolazioni colpite dalla guerra, dalle epidemie e dalla povertà?
«Forse correndo il rischio di deludere qualcuno, debbo confessare che non vivo affatto come “missionario” lo svolgimento della mia attività professionale di operatore umanitario. Alle origini della decisione di “convertire” questa professionalità verso orizzonti, anche geografici, un po' più vasti c’era certamente un’esigenza di giustizia e di partecipazione, col tempo ha prevalso la semplice constatazione della sua utilità per tante persone che non dispongono di alternative».
- Nel passaggio da una professione medica a una scelta marcatamente umanitaria in quale misura la sua formazione accademica l’ha preparata e orientata?
«La formazione professionale negli anni ‘80 era completamente ispirata alle magnifiche sorti del progresso scientifico, e poco versata e illuminante circa le questioni della medicina sociale e internazionale. Inoltre la prospettiva della globalizzazione era ben lungi da venire. Quindi debbo ammettere, che al di là delle necessarie conoscenze di base assimilate e dell'addestramento tecnico e attitudinale, la formazione accademica non ha influenzato il mio successivo percorso».
- L’azione umanitaria valorizza e mette in risalto il fattore “risorse umane” quale elemento centrale della vostra organizzazione, che dispone di medici, operatori sanitari e volontari che opportunamente coordinati, coadiuvano e sostengono il vostro intervento con uno spirito umanitario e una professionalità correlata a questa missione. Nelle emergenze, quanto conta l’aspetto logistico-organizzativo nel rendere l’intervento medico tempestivo ed efficace in qualsiasi condizione climatica e consenta di salvare quante più vite umane possibili?
«Nella foresta thailandese al confine con la Cambogia, a fine anni ’70, tra zanzare malariche, khmer rossi e casi di colera, uno dei nostri padri nobili, il dottor Brauman, si chiedeva che senso avesse la presenza di un medico con degli scatoloni di farmaci confusi in quel posto. Nessuna. Come nessuna ne avrebbe oggi. Il contributo culturale di Medici senza frontiere alla medicina credo sia appunto questo, lo sforzo per identificare delle priorità in situazioni emergenziali, metterle in sequenza, introdurre una logica dell’azione dove ogni logica sembra perduta, che integri le competenze, le gerarchizzi, che consideri aspetti legati alla sicurezza, alla logistica, alla amministrazione, e li indirizzi a supportare l’azione medica. Senza dimenticare la necessità di testimonianza: per il progresso scientifico, per il riconoscimento dei diritti, per documentare le violenze e l’abbandono dei sopravvissuti».
Salvare vite umane è un'esigenza
- Salvare vite umane è un’emergenza, una speranza o una conquista?
«È un’esigenza... non corro il rischio di fare retorica affermando che per un medico, per me, è un’esigenza che ha a che fare col ruolo che mi è assegnato nel mondo».
- In tali circostanze nel medico votato a questa missione prevale la creatività, il coraggio e la determinazione spregiudicata, lasciando nelle sue mani un ampio margine discrezionale. Il confine sottile che si determina tra atto medico coraggioso e senso di onnipotenza, secondo lei pone una questione di ordine etico?
«Certamente, ciò che ha a che fare con la vita e con la morte comporta un interrogativo di tipo etico. Ma qui non stiamo parlando dell’anestesista che decide se spegnere un interruttore, i contesti sono altri e davvero il rischio del senso di onnipotenza è elevato. Ma di questo Msf è talmente consapevole che anche in quel posto in mezzo alla foresta tu non sei lasciato solo con le tue mani, ed è prevista sempre nell'organizzazione dei programmi sul campo la possibilità di confronto e condivisione con i colleghi con cui si partecipano le responsabilità operative».
- L’approccio terapeutico al malato presuppone l’ascolto della sua narrazione per la comprensione delle ragioni profonde della sua sofferenza. Come viene affrontato e superato lo scoglio culturale, etico, politico e sociale dai vostri medici ed operatori sanitari?
«Questo è un fronte aperto. La rappresentazione della malattia dipende dal contesto sociale e culturale. Delle mediazioni sono necessarie e determinano il successo dell’intervento, soprattutto quando si cercano risposte per problemi sanitari collettivi: cito la tubercolosi in ambiente pastorale, il colera nelle megalopoli, ma anche più recentemente le epidemie assassine di febbri emorragiche come ebola.
- La medicina attuale è centrata sul sintomo e la stessa attività del medico è spesso regolata da esigenze di tipo manageriale che privano l’atto medico di una dimensione umana ed empatica: depauperandolo del suo significato originario di missione, offuscando sistematicamente la soggettività del malato. Secondo Lei tutto ciò è ascrivibile a una crisi etico-sociale del nostro tempo?
«Dovrei onestamente rispondere che non lo so, perché faccio il medico da un’altra parte. Ma in effetti il problema si può porre ovunque. Non sono sicuro di rispettare sempre la soggettività del singolo malato che ha menzionato... soprattutto quando i pazienti sono tanti. Ma di una cosa sono certo, con i miei colleghi non uso la medicina che pratichiamo per arricchirci a spese di quel malato, e sono certo che questo loro, i pazienti, lo percepiscono, e si sentono perciò non depauperati né sfruttati nella relazione con noi, che origina sempre dal loro individuale legittimo bisogno di salute».