Papa Francesco, ricevendo in udienza il cardinale Angelo Amato, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, ha autorizzato la promulgazione dei decreti “il martirio dei servi di Dio Pietro Claverie, dell’Ordine dei Frati Predicatori; Vescovo di Oran e 18 compagni, religiosi e religiose, uccisi, in odio alla fede, il Algeria dal 1994 al 1996”. Presto, dunque, saranno beati.
Viene così riconosciuto il martirio patito dalla Chiesa algerina nell’ultimo decennio del secolo scorso. Tra il 1994 e il 1996 furono in tutto 19 i religiosi uccisi in Algeria, tra loro anche sei suore. In quegli anni l’Algeria fu teatro di uno scontro feroce tra i militanti jihadisti e l’esercito algerino. I terroristi del Gia (Gruppo islamico armato) e in seguito i gruppi salafiti seminavano morte nelle città e nelle campagne. I terroristi colpivano gli stranieri (fra loro anche sette marinai italiani uccisi nel luglio del 1994 nel porto di Djen Djen), ma le decine di migliaia di morti di quegli anni di piombo furono soprattutto algerini: giornalisti, scrittori, intellettuali, politici, anche imam. E tanta gente comune. Tutti musulmani.
Poi ci furono i martiri cristiani. Fu uno stillicidio di agguati. I primi a cadere, l’8 maggio del 1994, sono padre Henri Vergès e suor Hèlene Saint-Raymond. Il 23 ottobre sono uccise altre due suore. Poco dopo Natale, il 27 dicembre, quattro Padri Bianchi vengono massacrati a Tizi Ouzou. Il 3 settembre 1995 è il turno di altre due suore. Il 10 novembre viene uccisa suor Odette Prevost. Nella primavera del 1996 i jihadisti rapiscono e massacrano i sette monaci trappisti di Tibhrine. Ancora non sazi di sangue, i carnefici preparano l’ultimo agguato contro un uomo di Chiesa e puntano al bersaglio grosso. Il 1 agosto 1996 fanno esplodere una bomba che uccide il vescovo di Orano, Pierre Claverie, insieme al suo autista algerino e musulmano, Mohamed.
Le vittime erano persone miti, di solito anziane, quasi tutte da molti anni in Algeria, benvolute, con tanti amici musulmani. Erano esponenti di una Chiesa cattolica minoritaria, discreta, per nulla incline al proselitismo, da sempre vicina al popolo algerino.
Nel corso degli anni la Chiesa cattolica in Algeria era riuscita a godere rispetto e prestigio, senza confondere la sua immagine con quella della Francia, l’antica potenza coloniale. Il cardinale Léon-Etienne Duval, arcivescovo di Algeri durante la guerra di liberazione, fu ammirato e rispettato fino alla sua morte, avvenuta il 30 maggio del 1996, lo stesso giorno in cui furono ritrovati i corpi dei sette monaci di Tibhirine. Quando andai a trovarlo pochi mesi prima della sua morte, nel suo appartamento sulla collina di Notre-Dame-d’Afrique, il taxista musulmano che mi portò da lui volle salutarlo con grande rispetto, con le mani giunte davanti al petto e un inchino della testa. La moudjahida Akila Ouared, combattente della guerra di liberazione, mi descrisse Duval come “nôtre frère de combat”, il nostro fratello nella lotta. Questa era la reputazione della Chiesa cattolica d’Algeria.
“Vogliamo essere un presenza viva nella società algerina, senza voler imporre un nostro modello di società”, ripeteva in quegli anni monsignor Henri Teissier, che nel 1988 era succeduto a Duval alla guida della diocesi di Algeri.
Era lo stesso spirito con cui vivevano la loro missione i sette monaci trappisti. Il primo insediamento di monaci a Tibhrine, 80 chilometri a sud di Algeri, risale al 1938. Nel 1963, dopo l’indipendenza, il monastero di Note Dame dell’Atlante sembra prossimo alla chiusura (secondo un abate generale “l’ordine non può permettersi il lusso di un monastero in un mondo musulmano”) , ma proprio il vescovo di Algeri, Duval, si mobilita per mantenerlo aperto e arrivano nuovi monaci. Da parte della comunità c’è un rinnovato impegno a vivere in profondità l’esperienza monastica in un paese musulmano. Lo stesso stemma del monastero richiama a essere “segni sulla montagna”.Quando a partire dal 1994 i jihadisti cominciano a uccidere preti e suore, i monaci di Tibhirine si preparano al peggio. Si interrogano. Qualcuno pensa di partire. Frère Michel scrive al cugino: “Se ci succedesse qualcosa -non me lo auguro- vogliamo viverlo, qui, solidali con tutti quegli algerini e algerine che hanno già pagato con la vita, semplicemente solidali con tutti questi sconosciuti, innocenti”. Frère Luc, il più anziano, stabilisce che al suo funerale sia fatta ascoltare Edith Piaf che canta “Non, je ne regrette rien”.
Gi uomini armati tornano nella notte fra il 26 e il 27 marzo 1996. Portano via frère Christian de Chergè, 59 anni il priore; frère Luc Dochier, 82 anni, il medico, in Algeria dal 1947; frère Christophe Lebreton, 45 anni; frère Bruno Lemarchand, 66 anni; frère Michel Fleury, 52 anni; frère Célestin Ringeard, 62 anni; frère Paul Favre-Miville, 57 anni. Il 18 aprile un comunicato del Gia spiega che i monaci sono stati rapiti perché “non si sono separati dal mondo. Al contrario, vivono con la gente e la allontanano dal cammino divino incitandola a evangelizzarsi”. Il comunicato successivo, datato 21 maggio, annuncia: “Abbiamo tagliato la gola ai sette monaci”. I corpi vengono ritrovati il 30 maggio. Sulla fine dei monaci c’è un “giallo”. In questi anni alcune testimonianze hanno fatto riferimento a iniziative poco limpide da parte dell’esercito algerino, forse una trattativa con i terroristi condotta male, forse un maldestro blitz per liberare gli ostaggi. Resta aperta una inchiesta da parte dei magistrati francesi.