Giungere al cuore
della sua vitalità.
Ecco il passaggio
significativo
che compie il legame
uomo-donna
con il concilio
Vaticano II.
Non più attenzione
al solo fine
procreativo,
ma anche al bene
dei coniugi.
Una novità epocale
su cui ancora
si discute
e da cui si intende
certamente ripartire
per il futuro.
Il cristianesimo, nel corso della sua storia oltre bimillenaria,
ha compreso il matrimonio e la famiglia
nell’orizzonte del bene dei coniugi e del bene
dei figli. Le due finalità, tuttavia, non hanno avuto
lo stesso peso e valore. La cosiddetta gerarchia
dei fini che, dal periodo medievale con san Tommaso,
è arrivata fino al concilio Vaticano II
(1962-1965) teorizza, come fine primario, la procreazione
e l’educazione dei figli; e, come fine secondario,
il mutuo aiuto dei coniugi.
Una lunga tradizione ha esaltato, così, il valore-bene
della procreazione e ne ha grande merito, ma ha
trascurato teoricamente il bene (valore, qualità) della
relazione di coppia, e in questo ha mancato. Dalla
qualità della relazione di coppia, infatti, tutto dipende
in termini di autenticità, compresa la procreazione educazione
dei figli. Se non sono sposi riusciti, è difficile
pensare che possano diventare genitori riusciti.
Un profondo ripensamento della dottrina tradizionale
del matrimonio è avvenuto al concilio Vaticano
II. La visione è profondamente innovativa e si
caratterizza in una duplice prospettiva:
La relazione uomo-donna dalla periferia viene
al centro; e, al centro della relazione, l’amore come
fondamento, giustificazione e movente. In questa
prospettiva, il matrimonio è così definito: «Intima
comunità di vita e di amore... fondata dal Creatore
e strutturata con leggi proprie».
La relazione di amore uomo-donna, che ha valore
per sé stessa, è naturalmente aperta alla vita. In altre
parole, l’apertura alla vita appartiene alla coppia,
sebbene non esaurisca il suo significato che è
quello di costruire una unità nella
dualità. Non a caso, il concilio Vaticano
II abbandona la teoria della gerarchia
dei fini del matrimonio, perché
ha condotto a considerare secondaria
la qualità e l’importanza della relazione
di coppia. D’altra parte, quando
s’introduce il discorso della gerarchia,
il fine «secondo» rischia di diventare
«secondario».
Nella prospettiva personalista e relazionale
del matrimonio, si muovono
i successivi interventi del magistero
cattolico e lo stesso Sinodo dei vescovi
dedicato alla Famiglia nel mondo
contemporaneo (1980).
1 - L’amore coniugale. La domanda
è inevitabile: quale tipo di amore
fonda una relazione così originale e
unica rispetto a qualsiasi altra relazione
uomo-donna? Per rispondere, ci si
può riferire a tre testi che convergono
nel descrivere l’idea multidimensionale
dell’amore coniugale. Tra
questi testi, due sono del magistero
cattolico, l’altro è di un filosofo che si
dichiara non credente.
Paolo VI insegna che l’amore coniugale
è amore pienamente umano,
vale a dire spirituale e sensibile insieme,
non riducibile, pertanto, né al solo
sentimento né alla sola ragione e
volontà. Le due dimensioni (spirituale
e sensibile) sono distinte, ma non
separabili.
Benedetto XVI insegna
che l’amore coniugale è amore eros
(passione, desiderio); è amore philia
(amore di benevolenza); è amore agape
(amore oblativo, dedizione disinteressata).
Non sono tre amori, ma un
unico amore nelle sue diverse componenti
che sono distinte, non contrapposte,
distinte ma non separabili.
Il filosofo tedesco, Erich Fromm, afferma
che l’amore coniugale è amore
erotico ma è anche volontà, promessa,
decisione. «Amare qualcuno non
è soltanto un sentimento potente, è
una decisione, un giudizio, una promessa.
Se l’amore non fosse più che
un sentimento, non esisterebbero le
basi per la promessa di amarsi eternamente.
Un sentimento incomincia e
poi scompare. Come posso io giudicare
», conclude, «che durerà eternamente
se il mio atto non implica un
giudizio e una decisione?».
2 - Perennità e fede. Che l’amore
sia perenne, è una questione di fede o
anche di ragione? È una questione di
ragione e di fede (ratio et fides), ma
per comprendere la perennità incondizionata,
occorre la fede che, d’altra
parte, non è in contraddizione con la
ragione, ma la allarga in un orizzonte
più ampio. Un’altra domanda: l’amore
è perenne (indissolubile) perché è
comandato o è comandato perché è,
in sé stesso, sovratemporale? I padri
conciliari non si limitano a ripetere la
mera obbligazione e il dovere, ma
s’impegnano a illustrarne il senso. A
prescindere da leggi, tanto divine come
umane, è l’amore coniugale –
amore «unico» e per «sempre» – ad
avere la dimensione sovratemporale.
Come pure, è esigenza del bene dei figli:
l’educazione e la formazione esigono
l’apporto di tutti e due i coniugi
in un ruolo specifico, diverso e complementare.
Insuperabile in questa
prospettiva, è Paolo VI quando ricorre
alla psicologia e all’esperienza dei
coniugi.
3 - Simbologia sacramentale. L’amore
coniugale è una realtà umana, secolare
e laica, ma non è leggibile soltanto
a questo livello: infatti, rinvia oltre,
rinvia alla relazione tra Dio e l’umanità
e, in chiave cristiana, alla relazione
Cristo-Chiesa e, viceversa, alla relazione
Chiesa-Cristo. Ancora di più, l’amore
umano non è soltanto segno
dell’amore di Dio per l’umanità, di
Cristo per la Chiesa, popolo di Dio nella
storia, ma lo rende presente. L’amore
coniugale diviene così mediazione
dell’amore di Dio. Vale a dire l’amore
di Dio, che si è visibilizzato in Gesù di
Nazaret, viene agli sposi mediante il loro amore e loro vanno a Dio mediante<
il loro amore. Così si comprende che
gli sposi si santificano nel matrimonio
e attraverso il matrimonio e non nonostante
il matrimonio. La realtà sacramentale
non cambia l’amore umano
in un’altra realtà, ma lo perfeziona,
conferma la sua fedeltà e perennità.
Per concludere, nel disegno di Dio, il
senso (significato, finalità) è la relazione
uomo-donna che ha l’amore per
fondamento, giustificazione, movente,
traguardo. L’amore coniugale, nella
vita di coppia, non è tutto, ma è certamente
il fattore decisivo, e così è soggettivamente
avvertito.
Il senso (significato, valore, bene)
del matrimonio è la relazione tra un
uomo e una donna che ha l’amore
per motivazione, giustificazione, movente
e finalità. La morale che ne deriva,
pertanto, è una morale della relazione.
Il disegno di Dio sul matrimonio
non si compie automaticamente,
ma è affidato alla libertà-responsabilità
umana, spesso tentata di venire meno
al disegno di Dio. Anche il matrimonio
è un luogo dove si verifica la
lotta tra il bene e il male, tra grazia e
peccato. «La famiglia si trova al centro
del grande combattimento tra il
bene e il male, tra la vita e la morte,
tra l’amore e quanto all’amore si oppone.
Alla famiglia è affidato il compito
di lottare prima di tutto per liberare
le forze del bene...Occorre far sì
che tali forze siano fatte proprie da
ogni nucleo familiare, affinché..., la
famiglia sia forte di Dio». Il matrimonio,
infatti, può rappresentare il luogo
del disagio, della mancanza affettiva,
dell’incomunicabilità e dell’egoismo
dei singoli, luogo di alienazione
e di smarrimento personale. Sarebbe
ipocrita ignorare la violenza familiare
che, come un enorme iceberg occulto,
fa la sua apparizione in proporzioni allarmanti:
i casi di violenza familiare,
con esito di distruzione e di morte, superano
le vittime in altri ambiti, anche
se l’opinione pubblica non vi presta
sufficiente attenzione.
Se il senso del matrimonio è la relazione
tra l’uomo e la donna, la morale
che ne deriva è una morale di relazione
che risponde a tre domande:
1 - Perché la relazione coniugale (livello
decisionale)? La novità, rispetto
alle generazioni precedenti, consiste
nel fatto che a rispondere alla domanda
è solo la persona. Fino a un passato
non molto lontano (e in molte culture
ancora oggi) la comunità era determinante,
mentre oggi è praticamente
e anche teoricamente irrilevante.
2 - Com’è la relazione? (livello descrittivo).
La domanda non è propriamente
etica, ma è importante per l’etica.
In teoria si possono ipotizzare tre tipologie:
può essere una relazione in
cui l’altro/a è in funzione dell’io: così
l’altro/a scompare, compare l’io dominante.
Può essere – secondo tipo – una
relazione in cui l’io è in funzione
dell’altro: così scompare l’io, all’orizzonte
compare l’altro. Finalmente –
terzo tipo – può essere la relazione reciproca.
Questo tipo di relazione verifica
l’unità nella diversità, l’appartenenza
e la differenza, mentre non si verifica
nel primo e nel secondo tipo.
Purtroppo, sovente le relazioni coniugali
riflettono il primo o anche il secondo
tipo. Si tratta di relazioni di tipo
strumentale, non intersoggettivo. Se
l’unità, infatti, deriva dalla capitolazione
dell’uno o dell’altra, la relazione si
trasforma in luogo di mortificazione
dell’uno o dell’altra o di tutti e due.
L’amore autentico è critico di quanto
può avere di possessivo e di narcisistico
(ricerca della propria immagine
nel volto e nell’immagine dell’altro);
consente, invece, e dà il giusto spazio
all’incompiutezza, all’insoddisfazione
del desiderio; permette all’altro di riconoscersi,
di essere sé stesso.
3 - Come deve essere la relazione?
(livello etico). La domanda sarebbe
superflua se l’essere umano, uomo e
donna, fosse predisposto unicamente
all’empatia nei confronti dell’altro/a. In tale caso, non avrebbe bisogno
di alcuna morale; la qualità della
relazione sarebbe garantita. Ma così
non è. In ogni comportamento umano
si sperimenta, da un lato, la presenza
di tendenze costruttive e, dall’altro,
la presenza di tendenze distruttive
(concorrenza, pregiudizio, avversione,
odio), che portano nella direzione
contraria all’amore oblativo.
È necessario, ma non basta interpretare
queste tendenze. È necessario
che il soggetto prenda responsabilmente
posizione, domini le tendenze
distruttrici e dia spazio alle tendenze
costruttrici. Se il soggetto non ha raggiunto
un sufficiente grado di maturità,
la relazione di coppia è inevitabilmente
a rischio. Non è difficile riconoscere
che i fallimenti, pur diversamente
motivati, hanno alla radice l’immaturità
delle persone (dell’uno o
dell’altra o di tutti e due). Più che relazione
reciproca sperimentano solitudine
reciproca. Il matrimonio che,
per definizione, è una scelta di vita e
per tutta la vita, chiama in causa la persona
e la sua maturità, la sua capacità
di amore/agape (amore oblativo).
La riuscita della relazione viene da
molteplici fonti, viene dalla maturità
della persona e dalla capacità di amare,
del resto mai compiutamente acquisita
una volta per tutte. Nel permanente
apprendistato, anche le prove e
i conflitti, se coraggiosamente assunti,
divengono una scuola di amore, di
una crescita nell’amore. All’obiezione
che all’amore non si comanda e che se
non c’è (o è morto), non può venire
per comando, si risponde che l’amore
è anche oggetto di comandamento
che non è estraneo all’essere umano.
Nel ricordare il comandamento, Gesù
di Nazaret fa leva su ciò che è originario
nell’essere umano, sulla sua capacità
di amare alla quale apre orizzonti
umani e umanizzanti. L’amore
non sostituisce la giustizia, è invece un
modo di compierla; il perdono autentico
non è copertura del male compiuto,
ma riconoscimento e offerta di possibilità
di un futuro diverso. L’amore
vero non passa sopra o accanto ai conflitti
interni ed esterni, ai comportamenti
sbagliati. È, invece, forza e capacità
di soluzioni costruttive.
La riuscita della relazione, più che
da eccellenti teorie filosofiche e teologiche
(pure necessarie), viene da concrete
esperienze di famiglie riuscite
(e sono la maggioranza) che, pur nei
limiti dell’umano, sanno vivere una
relazione affettiva felice. Sanno che la
felicità non consiste nell’assenza di
difficoltà, tensioni, e conflitti, ma nel
dare soluzioni costruttive ai conflitti
che inevitabilmente sorgono.
I conflitti non sono, di per sé, distruttivi,
sono, per così dire, positivi:
occasioni per chiarire e acquisire maggiore
esperienza, motivazione e forza.
L’amore coniugale, che è un valore
(bene, senso) per sé stesso, è naturalmente
orientato a donare la vita. C’è
una reciprocità tra l’essere sposi e l’essere
genitori: l’uno rinvia all’altro senza
forzature esterne. Basti pensare
all’iter defatigante che le coppie sterili
intraprendono con il ricorso alle
tecniche di fecondazione medicalmente
assistita. La mentalità anti vita,
intesa come esclusione dei figli, è un
fenomeno minoritario e si basa su diverse
motivazioni, come limitazione
alla libertà e autonomia della coppia;
paura di assumersi la responsabilità;
mancanza di speranza nel futuro.
La maggioranza dei coniugi nelle
società occidentali pratica, invece, la
riduzione del numero dei figli. Le cause
sono di ordine economico: mancanza di lavoro e della casa; ma anche
di ordine psicologico: molte coppie
non sperimentano il figlio come un
bene-valore, ma piuttosto come un peso.
Certamente la nascita di un figlio
significa per i genitori ulteriori fatiche,
nuovi pesi economici, altri condizionamenti
pratici: motivi, questi, che
possono indurli a non desiderare
un’altra nascita. Occorre riscoprire il
bene-valore del figlio nella famiglia e
nella società. In questa prospettiva, è
decisivo che il bene-figlio torni a ottenere
il primato nella cultura delle società
dell’Occidente. Si rende indilazionabile
una seria politica familiare
(equità fiscale e servizi sociali efficienti),
ma non basta. Occorre un’autentica
rivoluzione culturale che ristabilisca
la gerarchia dei valori e assicuri il
primato della vita umana sulle cose.
Il concetto di apertura alla vita può
trovare attuazione anche in forma diversa
da quella di fecondità naturale
propria, come l’impegno di dare una
famiglia a chi non ce l’ha. In questa
prospettiva, l’esortazione apostolica Familiaris
consortio (1981) offre una riflessione
ampia e articolata sia dal punto
di vista teologico come umano.
1 - Ricondurre a unità il discorso
morale. Il discorso morale in tema di
matrimonio e famiglia, ma non solo, è
sperimentato in modo frammentario
e dispersivo. Dentro e fuori la Chiesa,
si pensa alle molte norme morali e
per di più in chiave negativa. È necessario
che il discorso morale ricuperi
unità e fondamento nell’orizzonte del
grande e primo comandamento. Con
questo non si sostiene un’etica senza
norme, ma si vuol dire che le norme
non sono altro che determinazioni e
concretizzazioni dell’unico comandamento.
Così, la fedeltà, l’indissolubilità,
la fecondità non costituiscono doveri
(valori) in più, ma esigenze e determinazioni
dell’etica dell’amore.
C’è un nesso inscindibile tra amore
e fedeltà, tra amore e indissolubilità,
tra amore e fecondità. L’amore è il primo
principio teologico, allora è anche
il primo principio etico. Non si deve però
mai dimenticare che l’amore prima
che comandato è donato, è ricevuto.
Questo è vero a livello religioso: «Noi
abbiamo riconosciuto l’amore che Dio
ha per noi e vi abbiamo creduto».
Questo è vero anche a livello coniugale.
La morale, che ne deriva, è di risposta
all’amore donato, ricevuto. Sentirsi
amati dispone alla capacità di amare
gratuitamente, liberamente; sentirsi accolti,
riconosciuti, rende capaci di accogliere
e di riconoscere l’altro.
2 - Presentare le norme morali in
termini motivanti. La morale non mira
a ottenere un’obbedienza passiva a
modo di schiavi, meno che meno a ottenere
consenso per via della paura o
del castigo. Il suo unico scopo è convincere
le coscienze. Il discorso morale
non dimentica che «la dignità dell’uomo richiede che egli agisca secondo
scelte libere e consapevoli, mosso
cioè e indotto da convinzioni personali,
e non per un cieco impulso interno
o per mera coazione esterna». Soltanto
la maturazione di convinzioni
trasforma la vita. «Dobbiamo parlare
loro (ai coniugi) con gentilezza – avvertiva
il card. Hume al sinodo dei vescovi
(1980) – guidarli gradualmente
e parlare un linguaggio che li induca
a dire: «Sì, questo è giusto; ora è chiaro;
accetto». Il traguardo di ogni formazione
morale è condurre alla convinzione
personale. Fino a che questo
traguardo non è raggiunto, la formazione
è ancora in cammino.
C - Pedagogia ecclesiale. Il discorso
morale è sempre orientato al «dover essere» e questo non è mai in pari con la
situazione o realtà esistente. Per questo
la morale è sempre critico-orientativa
della situazione data: comprende
tutto, ma non giustifica nulla, perché
giustificare significa impedire di crescere.
Importanti documenti ecclesiali
parlano di una pedagogia ecclesiale
che viene denominata Legge della gradualità.
La pedagogia ecclesiale è guidata
dalla Legge della gradualità,
che, in attenzione alle persone, è consapevole
che il cammino verso la verità
morale è graduale e progressivo; dipende
da convinzioni da maturare; prevede
possibilità e impossibilità con la disponibilità
a superarle. La pedagogia
ecclesiale è una guida saggia: conosce
la meta (l’ordine morale oggettivo), e
anche i pellegrini che, incamminati alla
stessa meta, non tutti segnano lo stesso
passo. Il Vangelo della famiglia è lieto
annuncio per tutti, specialmente
per coloro che fanno fatica ad aprirsi
un cammino umano e umanizzante.
Una morale kantiana ricorda solo
doveri da compiere, la morale cristiana
apre traguardi, delinea direzioni di
vita, offre possibilità, ricorda promesse
che incoraggiano ad andare avanti.