logo san paolo
sabato 01 aprile 2023
 
L'APPROFONDIMENTO
 

"Processo Viareggio, quando il fattore tempo frustra il sentimento di giustizia"

10/01/2021  Fa discutere l'esito del processo per il disastro ferroviario di Viareggio. Gian Luigi Gatta, professore ordinario di Diritto Penale alla Statale di Milano, ci aiuta a interpretare la notizia della prescrizione parziale in Cassazione, senza nascondere le disfunzioni del sistema

Una vicenda umana e giudiziaria come quella del disastro ferroviario di Viareggio turba profondamente le persone coinvolte e l’opinione pubblica, perché è difficile spiegare e capire come sia possibile che, dopo quasi 12 anni e tre gradi di giudizio, mentre 32 persone sono rimaste uccise e altre ferite, ci si senta dire dalla giustizia che è troppo tardi per dare una risposta completa, che la prescrizione è intervenuta a far cadere l’accusa di omicidio colposo che aveva retto per due gradi di giudizio, mentre altri capi d’imputazione, come il disastro ferroviario, restano in piedi ma servirà un nuovo giudizio, davanti a una diversa corte d’Appello. La correttezza della decisione, non elimina nei non addetti ai lavori la percezione di aver assistito all’ennesimo fallimento del sistema, che ha macinato anni di lavoro per poi doversi arrendere a una risposta incompleta. Abbiamo chiesto a Gian Luigi Gatta, Professore ordinario di Diritto Penale alla Statale di Milano, Direttore del Dipartimento di Scienze giuridiche “C. Beccaria” e della rivista online Sistemapenale.it di aiutarci a capire quali sono i problemi e come se ne potrebbe uscire.

Professor Gatta, è davvero così: un processo come questo è sintomo di una patologia della giustizia italiana?

«Questa vicenda conferma, a me pare, che il principale problema della giustizia penale italiana è la lentezza del processo. Un conto è se il reato si prescrive perché non è stato denunciato e non è quindi iniziato il processo. Un altro conto è se il reato si prescrive durante il processo, prima che finisca, e magari a distanza di molti anni dopo il suo inizio. Se fosse stato possibile celebrare il processo per la strage di Viareggio in sette anni e mezzo gli omicidi colposi non si sarebbero prescritti. Senonché a dicembre del 2016, sette anni e mezzo dopo l’incidente, non era ancora stata pronunciata la sentenza di primo grado. Ciò significa che neanche la riforma Bonafede, che dal 2020 blocca la prescrizione dopo il primo grado, l’avrebbe impedita. Il vero problema sono allora i tempi del processo, che devono certo fare i conti con la complessità delle questioni, tecniche e giuridiche, che varia da processo a processo. Una commissione del Consiglio d’Europa, che valuta l’efficienza dei sistemi giudiziari, ha pubblicato un report a ottobre da cui risulta che la durata media del processo penale italiano è il quadruplo della media europea. Quando la prescrizione del reato si verifica a processo in corso e soprattutto in Cassazione, quasi alla conclusione di un lungo percorso, è del tutto naturale per l’opinione pubblica percepire un fallimento del sistema, è del tutto comprensibile che le vittime dei reati e i loro parenti si sentano frustrati nell’aver atteso dalla giustizia una risposta che non arriva o arriva monca e che come tale è insoddisfacente. Anche perché mentre il disastro ferroviario è un reato contro la pubblica incolumità – un interesse pubblico – l’omicidio è un reato contro la persona, cioè contro la vita di individui determinati, con un nome un cognome e una vita spezzata: per i parenti di chi ha perso la vita a Viareggio vedersi frustrata la domanda di giustizia sul filo di lana è un pugno nello stomaco, che lo Stato non può accettare».

Facciamo un passo indietro, ricordiamo a chi non sa nulla di giustizia che cos’è la prescrizione e perché esiste.

«Esiste in tutto il mondo, è un istituto legato al passaggio del tempo e alla gravità del reato: perché il tempo fa venir meno il bisogno di punizione e rende difficile, o inutile, perseguire una persona a distanza di molti anni da un reato commesso, a meno che quel reato non sia così grave da rientrare tra quelli, puniti con l’ergastolo, che non si prescrivono (omicidio volontario aggravato, strage, etc). Il tempo intercorso cambia le persone, i loro ricordi e rende man mano più difficile la ricerca della prova. Ma questa logica si capisce molto bene fin tanto che un reato viene scoperto dallo Stato così tardi da far venir meno l’interesse a perseguirlo. Tutti possono capire la prescrizione che interviene prima che il processo cominci: se lo Stato non ha scoperto per tempo il reato o non ha iniziato a indagare, a un certo punto viene meno l’interesse a farlo: non si punisce a 80 anni un nonno di famiglia che ha commesso un furtarello in gioventù (a meno che quel nonno non sia stato da giovane un gerarca nazista, autore di reati talmente gravi da essere, appunto, imprescrittibili). Più difficile, per i cittadini ma anche per i miei colleghi penalisti stranieri, - che vivono in Paesi in cui la prescrizione del reato non è più possibile dopo l’inizio del processo – è capire lo spreco di risorse economiche e umane che deriva da una prescrizione dichiarata quando il processo è già avanti, perché dà l’idea di una macchina che gira a vuoto, producendo sprechi di risorse pubbliche e sofferenze inutili e frustrazione per chi ha preso emotivamente parte al processo (penso alle vittime, familiari compresi). Bisogna allora guardarsi attorno e avere la consapevolezza che la prescrizione del reato, a processo in corso, è un’anomalia italiana. Prima la riforma Orlando (che dava più tempo per celebrare il giudizio in appello e in cassazione), poi la riforma Bonafede (che per i reati commessi dal 1 gennaio 2020 blocca la prescrizione dopo il primo grado) hanno cercato di evitare almeno che la prescrizione intervenga in secondo e in terzo grado. Ma il problema della lentezza resta ed è comunque una patologia, a partire dalla fase delle indagini, dove la gran parte dei reati si prescrive».

Chi non ha nozioni tecniche si chiede: non ci sarebbe stato modo di “prevedere” e prevenire l’intervento della prescrizione prima della Cassazione?

«Nel caso di Viareggio, il problema riguarda la contestazione di un’aggravante per violazione delle norme di sicurezza sul lavoro: la Cassazione ha stabilito che si è trattato di omicidio colposo plurimo ma senza questa aggravante: se l’aggravante non c’è quel reato si prescrive in 7 anni e mezzo, se ci fosse stata si sarebbe prescritto in 17 anni e mezzo perché il codice penale prevede tempi di prescrizione più che raddoppiati se l’omicidio colposo è aggravato per la violazione di norme sulla sicurezza del lavoro. Si poteva capire prima? Difficile dirlo perché tocca al processo stabilire se e quale reato sia stato commesso dagli imputati e confermare o smentire l’ipotesi dell’accusa. Se la Cassazione ha ritenuto non configurabile l’aggravante, in punto di diritto, ha fatto il suo dovere a dichiararlo, per quanto doloroso possa essere l’esito per le vittime».

Le persone comuni faticano a capire le differenze di valutazione tra diversi gradi di giudizio, proviamo a spiegare?

«Differenti valutazioni nei diversi gradi del giudizio possono destare perplessità per chi non è un addetto ai lavori, ma rientrano nella fisiologia del processo: il ricorso per cassazione si fa proprio per valutare la corretta applicazione della legge nei precedenti giudizi di merito; e i giudici, anche quelli della Cassazione, sono per Costituzione soggetti alla legge. Il problema reale non è allora che un’aggravante venga meno in Cassazione – a ragione o a torto non sta a me dirlo. La vera patologia, ribadisco, è la lentezza del processo penale italiano. Se lo Stato ritiene che sette anni e mezzo sia un termine di prescrizione ragionevole per un omicidio colposo non aggravato, allora deve attrezzarsi per garantire che il processo di concluda entro quel termine. Altrimenti condanna alla prescrizione il reato prima che il processo inizi e viene meno al dovere di tutelare il fondamentale diritto alla vita, esponendosi a possibili condanne da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, come già è accaduto rispetto alle violenze perpetrate in occasione dei noti fatti del G8 a Genova. Viareggio ci insegna che sette anni e mezzo sono troppo pochi, in relazione all’attuale stato della giustizia penale in Italia e alla complessità – tecnica e giuridica – che possono avere processi per omicidio colposo, come quello di Viareggio. Delle due l’una: o si allunga il termine di prescrizione per quel reato o si rende più rapido il processo».

Domanda da un milione di dollari, perché questa lentezza?

«Se si vanno a vedere i dati europei capiamo che abbiamo un numero di processi più alto della media, dunque bisognerebbe incoraggiare i riti alternativi (patteggiamento, rito abbreviato), punire gli illeciti meno gravi con sanzioni amministrative (cioè depenalizzare) e riservare il processo penale ai casi davvero gravi. Non solo, bisognerebbe avere maggiore consapevolezza di come la giustizia sia un servizio pubblico sul quale è prioritario investire, e fare quindi una riflessione sulla distribuzione delle risorse: se si fanno confronti con gli altri Paesi europei si nota che l’Italia ha meno giudici (11,6 ogni 100.000 abitanti contro i 17,7 della media europea) e ancor meno pubblici ministeri (3,7 contro gli 11,2 della media europea) rispetto alla popolazione, mentre tantissimi sono gli avvocati (388 ogni 100.000 abitanti, contro una media europea di 123). Questa proporzione ha un’incidenza sulla capacità di smaltimento del lavoro giudiziario. Un tema di cui non si parla quasi mai, nel dibattito pubblico, è poi quello della cronica carenza di personale amministrativo nel settore giustizia: se i funzionari amministrativi non sono abbastanza (sono 37 in Italia ogni 100.000 abitanti contro i 60 della media europea) gli atti arretrati si accumulano e i loro effetti si fermano. Chi conosce la giustizia, da vicino, sa quanto sia fondamentale il lavoro, in ombra, delle cancellerie. I reati si prescrivono anche e proprio perché i fascicoli dei procedimenti si ammucchiano nelle cancellerie e sulle scrivanie di giudici e pubblici ministeri, ai quali si chiede di gestire numeri ingestibili, senza un serio intervento sull’organico. Qualcosa è stato fatto, indubbiamente, ma molto deve essere ancora fatto. Da docente universitario mi piace ricordare come le facoltà di giurisprudenza siano affollate da giovani preparati che, con passione e entusiasmo, vorrebbero entrare in magistratura; e altrettanti giovani, specie in tempi di crisi economica, vorrebbero trovare occupazione tra il personale amministrativo».

È davvero impossibile come sembra trovare una mediazione intelligente tra garanzie per l’imputato e una ragionevole efficienza del sistema? Parlare di efficienza della giustizia penale sembra un tabù in Italia.

«Non solo non è impossibile, a meno di non pensare che in tutto il resto del mondo si facciano processi sommari, ma è doveroso ragionarci: perché se è vero che è normale e anche corretto che l’accertamento dei fatti e delle responsabilità richieda un tempo adeguato, dato che il risultato del processo ha conseguenze molto pesanti sulla vita delle persone, è vero che, se ragioniamo della giustizia come servizio, abbiamo anche un dovere come Stato di renderlo efficiente. Nei mesi scorsi tutto il dibattito sulla prescrizione s’è concentrato sull’imputato e sulle garanzie, che gli sono dovute, ma si è finito per perdere di vista il diritto della vittima e della società ad avere una risposta, che non significa necessariamente una condanna, ma una risposta che sia resa in tempi ragionevoli. La prescrizione in corso di processo è la frustrazione di questa attesa. Qualcuno dice che finché c’è serve a ridurre il numero dei processi e a garantirne la ragionevole durata, ma è in realtà una patologia, non può essere usata per curare l’altra patologia che è la lentezza».

 
 
Pubblicità
Edicola San Paolo