Molti ex studenti musulmani
lo chiamano al telefono
di casa. «A volte
non per parlare con me,
ma con mia moglie, specialmente se
si tratta di ragazze. Mi chiedono se
possono parlare con “zia”, un appellativo
che nella cultura araba si usa
per donne più grandi con le quali si
è in confidenza. Una volta a me, cattolico,
una studentessa ha chiesto un
parere se mettere il velo». Islamista e
docente di Lingua e letteratura araba
all’Università Cattolica di Milano,
Paolo Branca non è un professore
che resta dietro la cattedra. A partire
dalla sua materia di insegnamento, si
è compromesso a fondo con le persone,
accompagnando in particolare
i ragazzi di seconda generazione,
figli di genitori immigrati in Italia,
nel loro percorso di crescita e ricerca
di identità. Da quasi trent’anni è
impegnato in un dialogo con l’islam
italiano che si fonda su una profonda
conoscenza, ma anche, e soprattutto,
su incontri e amicizie nate lungo
questo percorso. Un impegno che lo
vede coinvolto anche a livello ecclesiale,
come responsabile del dialogo
con l’islam della diocesi di Milano.
Cosa ha risposto alla ragazza
che le ha chiesto del velo?
«Non le ho dato una risposta,
perché sono un educatore. L’ho invitata
ad approfondire le sue motivazioni.
Lei ha deciso di metterlo, e
dopo qualche anno l’ha tolto».
Per la prima volta, l’Università
Cattolica di Milano propone, diretto
da lei, un master sui monoteismi,
ovvero su ebraismo, islam e cristianesimo.
Perché?
«Queste tre religioni sono tornate
a giocare un ruolo importante
nello spazio pubblico, eppure c’è
una superficialità sorprendente nel
valutarle, prevalgono reazioni emotive
e manca una reale conoscenza.
Anche della propria religione. Questo
vale pure per noi cattolici. Se ci
si addentra nella Bibbia c’è chi non
segue più il discorso, mancano le coordinate.
Lo stesso vale per chi arriva
in Italia e professa un’altra religione.
C’è chi si improvvisa leader
di un centro islamico senza avere
un bagaglio di formazione religiosa
adeguato. Il master affronta la conoscenza
del cristianesimo e dell’islam,
introducendo anche l’ebraismo come
radice comune di entrambe le
religioni. Non pretende di formare
dei super-specialisti ma si avvale di
docenti qualificati ed è un’occasione
per conoscersi e vedere cosa si può
fare insieme. Non è escluso che diplomati
di fedi diverse possano andare
insieme a parlare nelle scuole
o nelle biblioteche: per esempio un
cristiano arabo con un musulmano
arabo, sarebbe già un messaggio».
Chi si occupa di dialogo viene
spesso tacciato di “buonismo”...
«“Dialogo” è una parola che
non mi piace molto, specialmente
se si traduce in un generico “Vogliamoci
bene”. Il dialogo è qualcosa di
molto serio che avviene tra persone
che hanno fatto un percorso di conoscenza
reciproca, che sono arrivate
a stimarsi e a rispettarsi. Non è una
commedia da recitare in pubblico per
dire che tutto va bene».
A Milano ha avuto successo la
biciclettata organizzata da alcune
donne musulmane per protestare
contro un imam che aveva dichiarato
“sconveniente” per le donne
andare in bici. Lei lavora con i giovani:
come stanno cambiando il volto
della comunità islamica di Milano?
«Un cambiamento in questi anni
c’è stato nei fatti, con le seconde e terze
generazioni: sono nati musulmani
“italiani”, anche se figli di immigrati.
Soprattutto le ragazze non accettano
più certe tradizioni dei Paesi d’origine
dei genitori. Ci sono donne musulmane,
anche velate, che rivendicano
un ruolo più indipendente e creativo.
E che lo fanno in modo positivo: nel
caso che lei cita invece di polemizzare
si sono fatte una bella biciclettata.
Silenziosamente – perché le buone
notizie non fanno rumore – ci sono
dei cambiamenti importanti. Potrei
arrivare a parlarle di ragazze-madri
musulmane che non sono state uccise
dai loro papà, ma di questo i
giornali non vogliono neppure sentir
parlare».
Ritiene che i media diano una
visione distorta dell’islam?
«I telegiornali sono un bollettino
di guerra. Uno che si tiene informato
diventa tendenzialmente
depresso! Mentre nella realtà della
vita quotidiana avvengono tante cose
confortanti e positive. Le cito due dati.
Dei 50 mila egiziani che abbiamo
a Milano 16 mila hanno la partita Iva.
Questo vuol dire che quasi ogni famiglia
in questi anni ha messo in piedi
un’attività economica, che sia una
pizzeria o un call center. Il secondo
dato proviene dalla diocesi: nei nostri
mille oratori il 25 per cento dei
ragazzi sono musulmani. Vanno in
oratorio a giocare, a fare i compiti.
Si è fatto tanto clamore sui presepi,
quando due o tre pazzi hanno tentato
di toglierli per non mettere a disagio
i musulmani, quando le famiglie
musulmane mandano i propri gli
all’oratorio dove crocifissi e presepi
di certo non scarseggiano. Ma di
questo nessuno vuole parlare perché
è una notizia che non fa paura, non
è esplosiva, non è preoccupante».
Nelle parrocchie le capita di
avvertire sentimenti contro le persone
di altra religione, e in particolare
musulmane?
«Purtroppo sì. Vivo a Milano da
24 anni nella stessa parrocchia nella
quale mi sono sposato, e la prima
conferenza su questo tema l’ho
potuta fare dopo 18. Sono andato a
quel primo incontro con due ragazze
musulmane e una delle due ne è uscita
piangendo. Aveva raccontato di
aver indossato il velo dopo l’11 settembre,
non perché si era radicalizzata
ma per mandare un messaggio:
“Nonostante qualcuno faccia questo
uso della mia religione, sono fiera di
essere musulmana e non mi nascondo”.
Qualcuno non ha capito e l’ha
accusata di essere dalla parte dei terroristi.
Da un certo punto di vista è
un bene che emergano i pregiudizi.
Dall’altro lato credo che una persona
che va in chiesa dovrebbe essere capace
di rispettare la spiritualità di un
altro, anche se professa una diversa
religione. Se anche l’altro crede in
Dio, dopotutto, dovrebbe essere in
sintonia con noi».
A Milano a dare un impulso decisivo
per il dialogo fu il cardinale
Carlo Maria Martini. Che ricordo
ha di lui?
«Rileggerei sempre il suo bellissimo
discorso “Noi e l’islam”. Anche
se è del 1990 è ancora validissimo.
Con alcuni ragazzi e ragazze del gruppo
di giovani musulmani che accompagno
siamo andati a trovarlo a Gallarate,
ormai malato e poco prima che
morisse. Lui ci ha raccontato della
sua esperienza a Gerusalemme e ci
ha dato dei consigli che sono rimasti
nel cuore e nella mente di tutti. Ci
ha detto di non giudicare mai le cose
a partire dall’ultimo interlocutore
che dice la propria, perché si rischia
di continuare a ondeggiare da una
posizione all’altra. E poi: “Quando
comincerete a dire: ‘Non ci capisco
più niente’, allora probabilmente sarà
il momento in cui comincerete a
capirci qualcosa”».