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«Prof, cosa pensa se metto il velo?»

07/04/2016  Docente all’Università Cattolica di Milano, Paolo Branca da 30 anni accompagna giovani musulmani italiani, ma non ama la parola dialogo

Molti ex studenti musulmani lo chiamano al telefono di casa. «A volte non per parlare con me, ma con mia moglie, specialmente se si tratta di ragazze. Mi chiedono se possono parlare con “zia”, un appellativo che nella cultura araba si usa per donne più grandi con le quali si è in confidenza. Una volta a me, cattolico, una studentessa ha chiesto un parere se mettere il velo». Islamista e docente di Lingua e letteratura araba all’Università Cattolica di Milano, Paolo Branca non è un professore che resta dietro la cattedra. A partire dalla sua materia di insegnamento, si è compromesso a fondo con le persone, accompagnando in particolare i ragazzi di seconda generazione, figli di genitori immigrati in Italia, nel loro percorso di crescita e ricerca di identità. Da quasi trent’anni è impegnato in un dialogo con l’islam italiano che si fonda su una profonda conoscenza, ma anche, e soprattutto, su incontri e amicizie nate lungo questo percorso. Un impegno che lo vede coinvolto anche a livello ecclesiale, come responsabile del dialogo con l’islam della diocesi di Milano.

Cosa ha risposto alla ragazza che le ha chiesto del velo?

«Non le ho dato una risposta, perché sono un educatore. L’ho invitata ad approfondire le sue motivazioni. Lei ha deciso di metterlo, e dopo qualche anno l’ha tolto».

Per la prima volta, l’Università Cattolica di Milano propone, diretto da lei, un master sui monoteismi, ovvero su ebraismo, islam e cristianesimo. Perché?

«Queste tre religioni sono tornate a giocare un ruolo importante nello spazio pubblico, eppure c’è una superficialità sorprendente nel valutarle, prevalgono reazioni emotive e manca una reale conoscenza. Anche della propria religione. Questo vale pure per noi cattolici. Se ci si addentra nella Bibbia c’è chi non segue più il discorso, mancano le coordinate. Lo stesso vale per chi arriva in Italia e professa un’altra religione. C’è chi si improvvisa leader di un centro islamico senza avere un bagaglio di formazione religiosa adeguato. Il master aff‹ronta la conoscenza del cristianesimo e dell’islam, introducendo anche l’ebraismo come radice comune di entrambe le religioni. Non pretende di formare dei super-specialisti ma si avvale di docenti qualificati ed è un’occasione per conoscersi e vedere cosa si può fare insieme. Non è escluso che diplomati di fedi diverse possano andare insieme a parlare nelle scuole o nelle biblioteche: per esempio un cristiano arabo con un musulmano arabo, sarebbe già un messaggio».

Chi si occupa di dialogo viene spesso tacciato di “buonismo”...

«“Dialogo” è una parola che non mi piace molto, specialmente se si traduce in un generico “Vogliamoci bene”. Il dialogo è qualcosa di molto serio che avviene tra persone che hanno fatto un percorso di conoscenza reciproca, che sono arrivate a stimarsi e a rispettarsi. Non è una commedia da recitare in pubblico per dire che tutto va bene».

A Milano ha avuto successo la biciclettata organizzata da alcune donne musulmane per protestare contro un imam che aveva dichiarato “sconveniente” per le donne andare in bici. Lei lavora con i giovani: come stanno cambiando il volto della comunità islamica di Milano?

«Un cambiamento in questi anni c’è stato nei fatti, con le seconde e terze generazioni: sono nati musulmani “italiani”, anche se –figli di immigrati. Soprattutto le ragazze non accettano più certe tradizioni dei Paesi d’origine dei genitori. Ci sono donne musulmane, anche velate, che rivendicano un ruolo più indipendente e creativo. E che lo fanno in modo positivo: nel caso che lei cita invece di polemizzare si sono fatte una bella biciclettata. Silenziosamente – perché le buone notizie non fanno rumore – ci sono dei cambiamenti importanti. Potrei arrivare a parlarle di ragazze-madri musulmane che non sono state uccise dai loro papà, ma di questo i giornali non vogliono neppure sentir parlare».

Ritiene che i media diano una visione distorta dell’islam?

«I telegiornali sono un bollettino di guerra. Uno che si tiene informato diventa tendenzialmente depresso! Mentre nella realtà della vita quotidiana avvengono tante cose confortanti e positive. Le cito due dati. Dei 50 mila egiziani che abbiamo a Milano 16 mila hanno la partita Iva. Questo vuol dire che quasi ogni famiglia in questi anni ha messo in piedi un’attività economica, che sia una pizzeria o un call center. Il secondo dato proviene dalla diocesi: nei nostri mille oratori il 25 per cento dei ragazzi sono musulmani. Vanno in oratorio a giocare, a fare i compiti. Si è fatto tanto clamore sui presepi, quando due o tre pazzi hanno tentato di toglierli per non mettere a disagio i musulmani, quando le famiglie musulmane mandano i propri –gli all’oratorio dove croci–fissi e presepi di certo non scarseggiano. Ma di questo nessuno vuole parlare perché è una notizia che non fa paura, non è esplosiva, non è preoccupante».

Nelle parrocchie le capita di avvertire sentimenti contro le persone di altra religione, e in particolare musulmane?

«Purtroppo sì. Vivo a Milano da 24 anni nella stessa parrocchia nella quale mi sono sposato, e la prima conferenza su questo tema l’ho potuta fare dopo 18. Sono andato a quel primo incontro con due ragazze musulmane e una delle due ne è uscita piangendo. Aveva raccontato di aver indossato il velo dopo l’11 settembre, non perché si era radicalizzata ma per mandare un messaggio: “Nonostante qualcuno faccia questo uso della mia religione, sono fi–era di essere musulmana e non mi nascondo”. Qualcuno non ha capito e l’ha accusata di essere dalla parte dei terroristi. Da un certo punto di vista è un bene che emergano i pregiudizi. Dall’altro lato credo che una persona che va in chiesa dovrebbe essere capace di rispettare la spiritualità di un altro, anche se professa una diversa religione. Se anche l’altro crede in Dio, dopotutto, dovrebbe essere in sintonia con noi».

A Milano a dare un impulso decisivo per il dialogo fu il cardinale Carlo Maria Martini. Che ricordo ha di lui?

«Rileggerei sempre il suo bellissimo discorso “Noi e l’islam”. Anche se è del 1990 è ancora validissimo. Con alcuni ragazzi e ragazze del gruppo di giovani musulmani che accompagno siamo andati a trovarlo a Gallarate, ormai malato e poco prima che morisse. Lui ci ha raccontato della sua esperienza a Gerusalemme e ci ha dato dei consigli che sono rimasti nel cuore e nella mente di tutti. Ci ha detto di non giudicare mai le cose a partire dall’ultimo interlocutore che dice la propria, perché si rischia di continuare a ondeggiare da una posizione all’altra. E poi: “Quando comincerete a dire: ‘Non ci capisco più niente’, allora probabilmente sarà il momento in cui comincerete a capirci qualcosa”».

 
 
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