Ai nostri giorni si sente spesso parlare di counseling,
counselor, consulenza familiare, mediazione familiare...,
rischiando di confondere quelle che
concretamente sono specifiche professioni che possiedono
una loro identità, una loro funzione e, soprattutto,
una loro metodologia. Alcune di queste professioni,
tra cui il mediatore familiare, costituiscono certamente
una novità, venuta alla luce da qualche anno soprattutto
in ambito giuridico. Tali mediatori sono chiamati
ad accompagnare una coppia che ha deciso di separarsi
a vivere questo evento tutelando il bene di eventuali
figli o, comunque, assumendo tale decisione con
responsabilità ed equilibrio. Il consulente familiare, invece,
è certamente una professione storica nata già negli
anni ’40 negli Stati Uniti, approdata in Italia negli
anni ’70 senza aver avuto, almeno inizialmente, un
grande successo. Essa è oggi molto diffusa e apprezzata
e, proprio negli ultimi anni, ha avuto una grande
espansione e affermazione. Entrambe le professioni citate
appartengono ad ambiti diversi rispetto a quelli
propri dello psicologo o dello psicoterapeuta, utilizzano
una loro specificametodologia e lavorano con clienti
che formulano una richiesta di aiuto diversa.
I confini tra queste professioni, sebbene apparentemente
deboli, sono invece molto marcati a tal punto
che il consulente familiare può essere definito opportunamente
come un operatore socio-educativo, definizione
in cui l’appellativo psicologico non compare affatto
senza, per questo motivo, deturpare il consulente di
una sua efficace azione ricca di valide strategie e specifiche
competenze. Anche chi volesse, invece, mantenere
unito al termine counseling l’appellativo psicologico, rischiando
secondo la nostra opinione di generare delle
confusioni terminologiche, sottolinea con enfasi la sua
differenziazione dalla psicoterapia: «Il counseling è un
intervento psicologico finalizzato a migliorare il benessere
individuale e a incrementare le abilità personali
per aumentare il funzionamento adattivo dell’individuo
sia a livello personale
che interpersonale, perfezionando
e implementando
la qualità della sua vita.
È un intervento d’elezione
per il potenziamento,
la riorganizzazione e la
mobilitazione delle risorse
personali e per il fronteggiamento,
la risoluzione
e il superamento delle
situazioni di crisi, non patologiche,
siano esse evolutive
o accidentali».
Come afferma Annamaria Di Fabio la consulenza è un intervento atto a operare più sulla salute che sulla patologia, infatti, «la prospettiva adottata lo allontana dalla patologia sia perché non si prefigge di operare su quel versante, sia perché non è incline a patologizzare con facilità e si muove in un’ottica che potremmo definire propositiva piuttosto che rimeditativa. Ciò significa che l’intervento sceglie di andare alla ricerca, rispetto alla persona e a quanto essa presenta, non di ciò che non funziona ma di ciò che funziona, focalizzando l’attenzione sulle parti forti piuttosto che su quelle deboli, ricordandosi l’importanza di saper vedere e le potenzialità di una tale visione dell’operatore in termini di rimando nello specchio sociale in cui l’altro si sta guardando attraverso l’intervento […]».
Ecco che appare, dunque, fondamentale definire quelli che sono i confini e i paletti tra una professione e l’altra affinché non ci siano inutili e scomode invasioni di campo. Esiste, tra di esse, una differenziazione di funzioni, di tecniche e di scopi. A tal proposito, per quanto riguarda la psicoterapia, possiamo dire che si differenzia dalla consulenza familiare per l’utilizzo del modello medico-paziente, per la presenza di patologie strutturate particolari, per la durata dell’intervento... Nella tabella 1 si evidenziano alcune particolarità che distinguono queste due professioni.
La confusione più grande,
invece è quella che si
è creata in Italia tra il consulente
familiare e il counselor,
tra la consulenza familiare
come metodologia
e il counseling come intervento
applicativo. Tale
confusione è dovuta al fatto
che, in Italia, quasi sempre
il counselor è un professionista
inteso come una
sorta di psicoterapeuta in
miniatura, un “quasi psicologo”
a tal punto che
egli può effettuare delle
consulenze psicologiche
che, a ben guardare, sono
le stesse che caratterizzano
anche l’intervento di
uno psicologo. A conferma
di ciò è il fatto che
moltissime Scuole di specializzazione
in psicoterapia,
rilasciano, al termine
del primo biennio di formazione,
un diploma di
counselor ai propri iscritti
che, se lo desiderano, possono
completare la loro
formazione diventando
degli psicoterapeuti.
D’altra parte, però, è innegabile
che possiamo intendere
la consulenza familiare
come la traduzione della parola counseling,
e pur tenendo ben distinte
le due figure professionali
del counselor e del consulente
familiare che, come
abbiamo già visto, possiedono
identità professionali
ben diverse e specifiche
e anche differenti percorsi
formativi, non possiamo
celare il fatto che,
spesso, i due termini sono
utilizzati in modo interscambiabile
come se fossero
sinonimi. Certamente
questo può generare confusione,
ma avendo illuminato
la diversità delle loro
funzioni professionali, tutto
è certamente più chiaro.
La consulenza familiare,
come dicevamo, ha
certamente la sua prima
origine in America, anche
se si è arricchita lungo
gli anni e le esperienze
dei Paesi nella quale è stata
utilizzata.
Il termine counseling o anche counselling, secondo l’inglese britannico, indica un’attività professionale che tende a orientare, sostenere e sviluppare le potenzialità del cliente, promuovendone atteggiamenti attivi, propositivi e stimolandone la capacità autonoma di scelta. Si occupa di problemi circoscritti e non specifici. Deriva dal verbo inglese to counsel, che risale a sua volta dal verbo latino consuloere, che si può tradurre letteralmente in “consolare”, “confortare”, “venire in aiuto”. Quest’ultimo si compone del suffisso cum che significa “con”, “insieme” e solere, “alzare”, “sollevare”, inteso propriamente sia come azione, che nell’accezione di “aiuto a sollevarsi”. Allo stesso tempo, è omologo a un altro verbo latino: consultoare, con il significato di “consigliarsi”, “deliberare”, “riflettere”. La traduzione italiana di counseling come consulenza è alquanto controversa in quanto un altro termine, consulting, ha in inglese lo stesso significato. È altresì problematica la sua traduzione con “consiglio”. La similarità linguistica tra le parole può, infatti, trarre in inganno.
Oggi l’uso popolare tra
i professionisti dell’aiuto
favorisce la parola counseling
al posto di consulenza
perché quest’ultima indicherebbe
maggiormente
il significato di dare pareri
e consigli, mentre consulting
è recepita più comunemente
come discutere
e deliberare insieme
in un contesto nel quale
domina la parità tra gli interlocutori,
anziché una
relazione di dipendenza
gerarchica. Quindi per counseling
intendiamo l’attività creativa
di due persone che interagiscono
in una situazione
di aiuto nella quale
c’è un counselor, o consulente,
che è la persona alla
quale si chiede di mettere
a disposizione la propria
formazione e la propria
esperienza per esaminare
e discutere gli aspetti
problematici che porta
il cliente. Cliente che è la
persona che chiede aiuto
perché è convinta di voler
attuare dei cambiamenti
nel suo comportamento,
nel sentire e nel pensare
per favorire un migliorare
della sua qualità di vita.
In genere si fa risalire la nascita di questa esperienza intorno agli anni ’30/’40, citando i contributi significativi di Carl Rogers e di Rollo May. «Il counseling è un intervento interpersonale nel quale due o più persone condividono saperi ed esperienze atte a creare le condizioni perché la persona che chiede aiuto scelga e decida in modo informato e autonomo di attivare comportamenti, pensieri e modi di sentire che soddisfino le intenzioni e le aspettative costruttive di vita proprie e degli altri»3. Lo stesso Carl Rogers riteneva essere l’assunto centrale del suo stile terapeutico il fatto che il cliente “sa di più”. «È il cliente che sa quello che lo sta facendo soffrire e in ultima analisi è sempre lui a sapere qual è il passo successivo da compiere». Se pensiamo, dunque, al ruolo del counselor, inteso come colui che attua il counseling, come la persona che favorisce lo sviluppo e l’utilizzazione delle potenzialità già insite nel cliente, aiutandolo a superare tutti gli ostacoli e le problematiche che gli impediscono di esprimersi pienamente e liberamente nella società, ci rendiamo immediatamente conto che tutto questo può avvenire in ogni tipo di contesto.
Il consulente familiare, in particolare, è una figura professionale apparsa nei Paesi di cultura anglosassone, in Canada e negli Stati Uniti da ormai vari decenni. In Gran Bretagna, il counseling ebbe forti radici nel settore volontario. Per esempio, la più grande agenzia di counseling del Regno Unito, il “National marriage guidance council”, Nmgc che oggi si chiama Relate, fu fondata nel 1938, quando un membro del clero anglicano, il Dr. Herbert Gray, mobilitò gli sforzi di persone che erano preoccupate della minaccia al matrimonio causata dai nuovi stili di vita moderna. L’ulteriore minaccia alla vita matrimoniale a seguito della Seconda guerra mondiale, condusse, nel 1942 alla fondazione del “Marriage guidance council”. Sin da allora, molti altri gruppi di volontari hanno fondato e organizzato servizi di counseling come risposta alle rotture sociali percepite e a crisi in aree come la violenza carnale, il lutto, il trauma, le questioni legate all’omosessualità e quelle legate all’abuso e al maltrattamento dei minori. Così come il Nmgc, molte di queste iniziative furono condotte da gruppi ecclesiali, come in Scozia dove molte agenzie di counseling debbono la loro esistenza al lavoro pionieristico del “Board of social responsibility of the Church of Scotland”.
Questa figura si è poi
estesa nei Paesi di cultura
spagnola, soprattutto in
Sud America, arrivando
progressivamente in Francia
dove, grazie alla scuola
del prof. Lemaire, noto
psicoterapeuta e studioso
della coppia, ha avuto risonanza
per il suo valore
scientifico. Per quanto riguarda
l’Italia, il consulente
familiare è presente
soprattutto nei consultori
familiari di ispirazione cristiana.
Nel 1974, in collaborazione
con l’“Association
francaise des centres
de consultation conjugale”
di Parigi, diretto dai
coniugi Lemaire e da
M.me Colette, in collaborazione
con il Centro di
Psicoterapia e Psicopedagogia
di Torino, si tenne
il primo corso per consulenti
familiari in Italia,
presso il Punto Famiglia
di Torino. Da questa esperienza
e da altre fatte in
Canada da Luciano Cupia
ebbero inizio nel 1976 i
corsi e la prima scuola per
consulenti familiari, la Sicof
di Roma, che ha iniziato
a tracciare un percorso
formativo ben preciso
che favoriva la formazione
di un professionista
con una sua propria e specifica
identità.
A questa esperienza,
che negli anni si è diffusa
in molte città di Italia, sono
seguite altre scuole
quali quella di padre Correra
presso il consultorio
di Napoli, del prof. Rossi
a Bologna, quella di Taranto
e, per ultima, il Cispef
presso il consultorio
familiare Anatolè di Frosinone,
programmata e fortemente
voluta da don Ermanno
D’Onofrio, che
possiede la specificità di
unire alle lezioni teoriche
e ai gruppi esperienziali
numerose esercitazioni
pratiche attraverso le quali
gli allievi possono sperimentarsi in ciò che apprendono.
Tutte queste
scuole propongono un
percorso formativo triennale
per formare questo
professionista della relazione
di aiuto che, con
metodologie specifiche,
aiuta il singolo, la coppia
o il nucleo familiare amobilitare,
nelle loro dinamiche
relazionali, le risorse
interne ed esterne per affrontare
quelle situazioni
difficili che possono assumere
la forma di ostacolo
nella vita di ogni giorno.
Il suo intervento, propriamente socio-educativo, dove occorre o dove lo si ritiene opportuno, può essere integrato da interventi di altri specialisti. Infatti, il consulente familiare privilegia il lavoro di supervisione in una équipe multiprofessionale; deve, inoltre, conoscere le teorie della personalità delle diverse scuole di pensiero, soprattutto, della psicologia umanistica, le basi della comunicazione interpersonale e i principi della sessuologia, delle scienze dell’educazione, del diritto, della sociologia della famiglia e dell’antropologia culturale.
Deve altresì conoscere i diversi sistemi di valori per capire il mondo e il contesto del cliente, anche se appartenente ad altre culture, con particolare attenzione alla presenza nel nostro Paese di varie etnie. Accanto a queste conoscenze, il consulente familiare deve acquisire una conoscenza funzionale delle principali tecniche del colloquio e delle dinamiche relazionali per una profonda e reale comprensione del cliente. Nella tabella 3 è possibile ritrovare tutte quelle che si ritengono essere le caratteristiche fondamentali di un buon consulente familiare.
Oltre che le abilità che
un buon consulente familiare
deve impegnarsi ad
attuare durante un percorso
con un cliente, è bene
tenere presenti anche
quelli che possiamo, invece,
considerare dei “difetti”
da dover necessariamente
tenere lontani dal
setting. Questi difetti possono
anche essere considerati
dei rischi o pericoli
che è bene conoscere affinché
possano essere evitati
con facilità. Essi vanno
dalla necessità di non
dare consigli al divieto assoluto
di interpretare;
dall’attenzione a non
esprimere giudizi personali
sul cliente al non fissarsi
rigidamente in un
ruolo; dall’evitare di utilizzare
un linguaggio troppo
tecnico e teorico
all’impegno a non interrompere
il cliente.
I difetti a cui abbiamo
accennato si possono trovare
elencati e descritti
nella tabella 4. All’interno
di un consultorio familiare
dovrebbe ricoprire
un ruolo professionale
fondamentale il consulente
familiare che possiamo
definire come un «professionista
socio-educativo
che attua percorsi centrati
su atteggiamenti e tecniche
di accoglienza, ascolto
e auto-ascolto che valorizzino
la persona nella totalità
delle sue componenti;
si avvale di metodologie
specifiche che agevolano
i singoli, la coppia e il
nucleo familiare nelle dinamiche
relazionali a mobilitare
le risorse interne
ed esterne per cercare e
vagliare le possibili soluzioni;
egli si integra, dove
occorre, con altri specialisti
e agisce nel rispetto delle
convinzioni etiche delle
persone e favorisce in
esse la maturazione che le
renda capaci di scelte autonome
e responsabili».
Quella del consulente
familiare è, attualmente,
una professione non regolamentata.
Essa, infatti,
non gode, in Italia, di un
riconoscimento legislativo
da parte dello Stato
che ne riconosca un’identità
né, tanto meno, che
ne indichi un percorso
formativo idoneo e necessario.
Il consulente familiare,
infatti, può essere
annoverato tra le professioni
non regolamentate che
si distinguono da quelle
protette, per cui esiste un albo
e un ordine professionale,
e quelle riconosciute,
per cui c’è un albo ma
non necessariamente un
ordine. Tale figura è, invece,
riconosciuta in moltissimi
Paesi degli Stati Uniti,
del Canada, dell’America
latina e anche dell’Europa.
Nel nostro Paese, il
fatto che non ci sia una regolamentazione
ufficiale
non significa che questa
professione non esista. Infatti,
diversi sono gli esempi
in cui è riconosciuta a
tale figura una funzione
specifica, come per esempio
la normativa regionale
in vigore in Lombardia e in Veneto. La Legge della
Regione Veneto dice
esplicitamente che «per
lo svolgimento della sua
attività, il consultorio deve
possedere un gruppo
di lavoro costituito da psicologi,
medici, assistenti
sociali aventi ciascuno la
funzione di consulenti familiari
», e nell’Articolo
successivo dichiara che «il
coordinatore del consultorio
è scelto tra i consulenti
familiari».
Ecco, quindi, che all’interno
di un consultorio familiare
l’opera del consulente
familiare, in particolare,
non invade altri campi
professionali anzi, è capace
di inviare, anche
all’interno del consultorio
stesso, il cliente a un altro
professionista, quale
appunto lo psicoterapeuta,
per affrontare evidentemente
una problematica
che fuoriesce dal campo
professionale e specifico
del consulente familiare
perché, per esempio,
corrisponde a un caso psicopatologico
per cui è necessario
definire una diagnosi,
aspetto che certamente
un consulente non
può affrontare.
Il consulente familiare
può prestare la sua opera
e il suo lavoro all’interno
di un consultorio, sia come
lavoro subordinato
che come collaborazione,
ma anche semplicemente
come forma di volontariato,
che, infine, come libero
professionista aprendo,
presso l’Agenzia delle
Entrate, una partita Iva afferente
a una specifica categoria
delle professioni
di assistenza sociale e di
aiuto. Ecco che subentra
un discorso di coscienza
professionale e deontologica
che dovrebbe far sentire
a chiunque voglia operare
come consulente familiare
un’esigenza formativa.
Esigenza che dovrebbe
esplicarsi non solo
in una serie di nozioni teoriche
fondamentali e afferenti
a discipline diverse
che vanno dalla psicologia
alla sociologia, dall’etica
alla giurisprudenza,
ma soprattutto con un
percorso personale costituito
di pratica ed esperienza,
e soprattutto di un
importante lavoro sulla
propria persona capace
di mettere a fuoco eventuali
punti problematici
per promuovere un percorso
di cambiamento necessario
per diventare un
professionista efficace della
relazione di aiuto.
A questo punto subentra,
in modo molto proficuo,
il discorso delle associazioni
di categoria professionale
nate proprio
per tutelare anche la professionalità
del consulente
familiare e molto impegnate,
su tutto il territorio
nazionale, a promuovere
lo studio dei problemi relativi
alla consulenza familiare.
In Italia esiste l’“Associazione
italiana consulenti
coniugali e familiari”,
l’Aiccef, nata nel 1977
e iscritta al Cnel, Consiglio
nazionale dell’economia
e del lavoro dal 9 marzo
2002.Questa importante
associazione possiede
un ricco codice deontologico
che, per esempio, definisce
la specificità di tale
professione che «si qualifica
come una relazione di
aiuto che tende a fare della
persona la protagonista
del superamento della sua
difficoltà, instaurando un
rapporto di fiducia e collaborazione,
affinché l’utente,
con le sue stesse risorse,
superi il momento di
disagio».
L’Aiccef tiene in grande
considerazione la formazione
e permette l’iscrizione
all’associazione in
qualità di soci effettivi, soltanto
a quei consulenti familiari
che fuoriescono da
un cammino formativo almeno
triennale. A tal proposito,
il codice deontologico
dell’associazione, nella
sezione professionalità,
afferma che «è richiesta
una preparazione specifica
nel campo della consulenza
familiare acquisita
attraverso la frequenza di
scuole e corsi riconosciuti
dall’associazione. Il consulente
familiare nell’esercizio
della professione deve
attenersi alle conoscenze
scientifiche dei vari campi
delle discipline antropologiche
e ispirarsi ai valori
etici fondamentali, assumendo
come principi fondanti
della sua attività la
tutela della vita, della salute
psicofisica, della dignità
e libertà di ogni persona,
della convivenza democratica,
senza mai soggiacere
a interessi, imposizioni,
suggestioni di qualsiasi natura,
provenienti da singoli
individui o parti sociali o
dall’intera collettività».
Questa associazione richiede
ai consulenti familiari
che aspirano a diventare
soci effettivi, una volta
concluso il percorso formativo
triennale, un periodo
di tirocinio quantificato
in almeno 200 ore, quattro
casi seguiti e un esame
specifico centrato, soprattutto,
sugli aspetti deontologici.
Tutto ciò soltanto
dopo che siano trascorsi almeno
due anni dall’acquisizione
del Diploma come
consulente familiare, al
termine di un percorso
formativo triennale.
Inoltre, per poter svolgere la libera professione, l’Aiccef richiede ai suoi soci effettivi l’iscrizione all’associazione e una formazione permanente; tutto questo a piena garanzia e tutela di una professione che ha una sua specifica identità e un suo delimitato campo di azione. Queste esigenze, infine, vengono applicate a prova della grande responsabilità e della indispensabile formazione che è necessaria a chiunque voglia lavorare onestamente, coerentemente ed efficacemente come consulente familiare.