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A Lesbo l’Europa si gioca l’anima

06/04/2016  La Turchia è a dieci chilometri: da lì, uomini, donne e bambini partono in fuga da guerre e povertà. Siamo stati nell’isola mentre veniva raggiunto l’accordo con la Ue per cercare di fermare l’esodo.

Sono rimasti ad aspettare tutta la notte, lo sguardo fisso al mare. Sulla spiaggia, al freddo, con il vento che fa schioccare la tenda alle loro spalle e disperde il fumo e le braci del fuoco, acceso per segnalare la loro presenza e scaldare ogni tanto un pentolino d’acqua per il caffè. Sono i volontari che ogni notte si incontrano qui a Camp Fire – come è soprannominato questo tratto di spiaggia vicino all’aeroporto – per essere pronti a dare il primo soccorso ai rifugiati in arrivo. Nell’oscurità si intravedono soltanto le luci verdi e rosse delle navi di Frontex che pattugliano questo tratto di costa.
Siamo a Lesbo, estremo confine d’Europa: a dieci chilometri c’è la Turchia, da cui ogni notte uomini, donne e bambini partono nella speranza di raggiungere la Grecia e farla finita con la guerra, la fame, la povertà. Con il buio si eludono più facilmente i controlli della Guardia Costiera turca, perché i radar non intercettano queste imbarcazioni fragili, costruite apposta per durare il tempo di una traversata, il motore dato in mano a uno qualunque dei passeggeri, anche se non ha mai visto il mare.
Ed eccolo, infine, il gommone, alle prime luci dell’alba: è carico di bambini, si sentono grida, qualcuno applaude mentre i bagnini si tuffano per trainarlo a riva. In pochi minuti si riversano sulla spiaggia uomini in lacrime, donne e anziani sorretti dai soccorritori; i più giovani, pieni d’adrenalina, esultano per avercela fatta; i piccoli sono presi in braccio dai volontari. Addosso hanno un giubbotto salvagente di scarto, a volte riempito soltanto da un’anima di cartone. Alcune donne si accasciano senza più energia, altre, le facce stravolte, si affannano in cerca dei figli; c’è persino un neonato fra i nuovi arrivati.
Si vedono bambini che sorridono nonostante tutto e altri con lo sguardo perso, seduti in disparte, separati dai genitori: uno di loro, avrà quattro anni, non riesce nemmeno a portarsi alla bocca il lecca lecca che gli hanno dato per consolarlo. Le mani ghiacciate, la giacca a vento imbevuta d’acqua, le scarpe fradice, tremano per il freddo: lasciano che i volontari tolgano via gli indumenti bagnati e guardano senza espressione la strana carta dorata delle coperte isotermiche con cui vengono avvolti. Tutto si svolge velocemente e in meno di mezz’ora il bus dell’Unhcr, l’Agenzia per i rifugiati dell’Onu, è pronto per portarli all’hot spot di Camp Moria, il centro ufficiale di accoglienza, dove verranno registrati e smistati nei diversi campi di transito allestiti dalle organizzazioni non governative (Ong) che operano a supporto delle strutture ufficiali, incapaci – da sole – a garantire un’assistenza adeguata.
L’isola di Lesbo, per la sua posizione strategica, è il principale approdo per chi tenta di entrare in Europa: l’anno scorso sono arrivati 500 mila migranti e a metà marzo 2016 siamo già a quota 84 mila. Una tragedia umanitaria, inasprita dalla chiusura della frontiera a Idomeni e dall’accordo appena firmato fra Unione europea e Turchia, in vigore dal 20 marzo, che prevede il ritorno in Turchia di tutti i migranti entrati irregolarmente in Europa. Per ogni immigrato senza permesso che viene riportato indietro, un rifugiato sarà ammesso attraverso canali umanitari. Un impegno di non semplice realizzazione che aggiunge incertezza e preoccupazione in una situazione già complicata: ora sono in molti a temere un controesodo, se non addirittura deportazioni di massa verso un Paese, la Turchia, che ha dimostrato anche recentemente gravi carenze nel rispetto dei diritti umani.
Nessuno sa che cosa succederà. «Lo sforzo degli operatori umanitari per dare un’assistenza ai rifugiati è enorme ma ci sono delle situazioni che rischiano di diventare critiche», commenta Ludovica Tosolini, ostetrica e presidente della Onlus Mam Beyond Borders, «le donne incinte, per esempio, non vengono monitorate adeguatamente durante la gravidanza. La foto che ha commosso il mondo, del bimbo nato a Idomeni in una tenda, testimonia una realtà drammatica, perché è inaccettabile che nel 2016, in Europa, un bambino nasca in un campo profughi».
In ogni caso, nessuno sta fermo a Lesbo. A pochi chilometri da Moria, un intero albergo è stato affittato dalla Caritas greca e messo a disposizione dei profughi, grazie al sostegno economico della Caritas Svizzera. Qui vengono ospitati per due o tre giorni i soggetti più vulnerabili (donne sole con i bambini, anziani, disabili) perché possano riprendersi in un ambiente più confortevole: 88 camere per 215 persone, di cui 70 bambini. «I rifugiati arrivano esausti, segnati dallo choc del viaggio, preoccupati per il futuro», racconta Tonia Patrikiadou, la responsabile Caritas del programma: «Diamo loro una prima assistenza medica e psicologica: tutti vorrebbero andare nel Nordeuropa, dove spesso hanno già parte della famiglia, ma la realtà è che, al momento, per molti l’unica possibilità è di fare domanda d’asilo in Grecia».
Intanto, nel giardino dell’albergo, i bambini vanno sull’altalena mentre gli adulti fumano e cercano di far passare il tempo. «Qualunque Paese va bene, basta avere la possibilità di iniziare una vita dignitosa», dice Nidal. È un ingegnere venuto con moglie e figlio da Idlib, in Siria: ci ha messo quattro anni a raccogliere i soldi per il viaggio, 2.500 euro a persona. «Durante la guerra ho visto di tutto: gente morta di fame, cadaveri in mezzo alla strada. Dopo un po’ non ci fai più caso». La traversata in mare è stata terribile: «Ci hanno obbligati a salire minacciandoci con la pistola, il motore non funzionava e continuava a spegnersi; molti si sono sentiti male». Ibrahim invece arriva da Kobane, nel Kurdistan siriano, ed è qui con la moglie, incinta di due gemelli, e due figli piccoli. Sul cellulare mostra le foto di altri tre bambini, che ha dovuto lasciare con il nonno, in Iraq; ma ora la frontiera fra Iraq e Turchia è chiusa e non sa come potranno raggiungerlo. Nonostante tutto, non ha perso la voglia di scherzare: «Mia moglie si chiama Syria – dice – e così, quando mi viene nostalgia, mi dico che ho portato tutto il mio Paese con me».

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