All’alba del 29 febbraio 2016 atterra a Fiumicino il volo Alitalia AZ827 proveniente da Beirut, Libano. È il primo corridoio umanitario che porta in salvo 93 siriani in fuga dalla guerra, in gran parte bambini. Tra di loro c’è una nonna di 20 nipoti, 54 anni, madre per la prima volta a 14, vedova a 37. “Badheea. Dalla Siria in Italia con il corridoio umanitario”, appena pubblicato dall’editrice Il Margine, racconta la fuga di questa donna dalla città martire di Homs, la sua vita nelle tendopoli del Libano, l’arrivo in Italia in sicurezza e senza trafficanti e come ora abiti a Ravina, in Trentino.
«Anche solo pensare ai miei vicini di casa di un tempo mi sembra difficile adesso», dice Badheea in apertura del libro, ricordando chi non c’è più. E allo stesso tempo aggiunge commossa: «Ogni giorno chiudo gli occhi e penso a quando potrò tornare in Siria». Tra le pagine scorrono i ricordi d’infanzia, il corteggiamento del marito, la colazione fatta di zuppa di fave, pane con hommos (una pastella di ceci e sesamo), uova, latte e olive. Poi il figlio incarcerato senza motivo, un altro prelevato dall’esercito che la madre riesce a far scendere dalla camionetta dando colpi di ciabatta a chiunque tentasse di opporsi. Anni difficili, senza libertà, che nel 2011, nel periodo delle Primavere arabe, fanno scendere in piazza gli oppositori al regime. A Homs Badheea, mentre cuce le bandiere per i manifestanti, vede la protesta pacifica divenire guerra civile: «I giovani pregavano, cantavano e chiedevano in maniera pacifica “libertà”. Poche ore dopo il tramonto l’esercito fece irruzione nella piazza. Prima circondarono i manifestanti, poi li sterminarono tutti».
Quando la polizia segreta del presidente Assad bussa alla porta e interroga in malo modo anche una nipote di sei anni, Badheea capisce che deve scappare in Libano. «Ho varcato il confine molte volte – racconta – i miei figli e le loro famiglie erano nascoste nei tubi delle fognature, per timore delle bombe e per paura di essere trovati». La donna continuava ad andare avanti e indietro, ricorda «la gola chiusa e la nausea» di quando scendeva nella fognatura.
In Libano la famiglia vive prima a Shatila e poi nella tendopoli di Tel Abbas. Qui i figli bruciano i mobili portati da Homs per scaldarsi, Badheea vende orecchini e collane per comprare il cibo, ci sono minacce e vessazioni da parte dei libanesi. I bambini non vanno a scuola e soffrono: «Mahmud – ricorda – aveva quattro anni e mordeva tutti. Aveva visto suo padre partire con i barconi e aveva vissuto in una cantina senza poter uscire, sentendo i rumori della guerra».
Ma nelle fredde tende di nylon del campo, a un certo punto, “arrivano gli italiani”. Sono i volontari dell’Operazione Colomba della Comunità Papa Giovanni XXIII che decidono di dormire al campo per proteggere i profughi dalle crescenti minacce: «Ci hanno aiutato a tenere nel cuore una brace. E hanno soffiato sul nostro cuore perché non si spegnesse». Si stabiliscono in una tenda bianca con una colomba arancione. «Arrivavano con un po’ di pollo – racconta Baadhea – e mi dicevano: “Lo puoi cucinare per noi?”. Lo so perché facevano così: sapevano che non potevamo comperare la carne, ma per non farci sentire imbarazzati non ci davano soldi, ma ci chiedevano di cucinare per tutti». E ancora, parlando di Abu Toni (Alberto Capannini, uno dei fondatori dell’Operazione Colomba): «Girava la testa per non farci vedere che piangeva. Mi parlava e si asciugava le lacrime di nascosto per non piangere davanti a me. Abbiamo riso e pianto insieme».
Nel giugno 2015, quando la famiglia di Badheea non può più rinnovare i permessi per stare in Libano, l’unica via aperta per l’Europa è il mare. Al campo però arrivano altri italiani, amici di Abu Toni: sono i responsabili della Comunità di Sant’Egidio, della Federazione delle chiese evangeliche e della Tavola valdese che stanno studiando come aprire i corridoi. È un’altra tappa di quella “geopolitica dell’amicizia” che è una chiave interpretativa della storia raccontata in questo libro e che porta la famiglia di Badheea, la notte del 28 febbraio 2016, ad arrivare in sicurezza in Italia e richiedere l’asilo politico. Prima di salire sull’aereo, Maria della Comunità di Sant’Egidio regala a Baadhea un braccialetto viola: «Da allora lo porto al polso – aggiunge – c’è scritta la parola pace in molte lingue. Anche in arabo».
In definitiva quella di Badheea è la storia di persone che si sono messe sulle spalle i fragili destini di altri. Una di queste è l’autore del libro, Mattia Civico, il consigliere provinciale che ha partecipato in prima persona alla gestione dell’arrivo del gruppo di 35 profughi a Trento. Qui la famiglia è alloggiata in una grande casa dell’Arcidiocesi, un tempo residenza estiva del vescovo. I bambini tornano a scuola e continua quel “cordone di amicizia” che mette in pratica ciò che ha ricordato Papa Francesco: le istituzioni accolgono, ma le comunità integrano. Così il figlio di Mattia chiede al padre: «Papà, per la mia festa invitiamo ai miei amici siriani?».
Nel libro scritto da Civico si alterna di continuo piccola e grande storia, quella di Badheea e quella della Siria giunta scandalosamente al settimo anno di guerra. Questo intreccio mostra come i corridoi umanitari sono la risposta alla violenza, ma sono anche una risposta di fronte al muro dell’impossibile. Quando la Comunità di Sant’Egidio li propose, fu risposto che era impossibile, la situazione era troppo complicata… Poi nel dicembre 2015 fu firmato il primo accordo tra il Governo italiano e l’alleanza ecumenica composta da Sant’Egidio con la Federazione delle chiese evangeliche per mille siriani accampati nei campi del Libano. Finanziato dall’8 per mille della Tavola valdese, a 13 mesi di distanza ha già portato in Italia 700 rifugiati come Badheea: un numero superiore alla cifra di 680 profughi “ricollocati” in un anno e mezzo (con la relocation stabilita dai vertici europei) da ben 15 Paesi dell'Ue messi insieme.
È un progetto-pilota che ha fatto scuola in Europa: lo scorso mese la Cei ha annunciato l’apertura di un corridoio dall’Etiopia per 500 eritrei, mentre martedì 14 marzo, all’Eliseo, alla presenza del presidente François Hollande è stato firmato il patto per 500 siriani che arriveranno dal Libano alla Francia. Cinque le organizzazioni promotrici: Comunità di Sant’Egidio, Federazione protestante di Francia, Conferenza episcopale francese, Entraide Protestante e Secours Catholique. Si replica l’alleanza ecumenica di cristiani che si uniscono per aiutare i più deboli. Intanto, anche in Polonia e in Spagna sono in corso le trattative. Se andranno in porto, altri uomini e donne potranno ripetere le parole di Badheea all’arrivo a Ravina: «Finalmente abbiamo appoggiato la testa su un cuscino e il nostro corpo su un materasso. Erano quattro anni che non vedevo un letto. Quattro anni che non vedevo un bagno. E dopo quattro anni, finalmente, potevo addormentarmi senza paura. Qualcuno era stato con noi. Qualcuno ci aveva preparato un posto. Ecco cos’è la speranza: sapere che qualcuno è con te, ti aspetta e ti preparar un posto».