Trent’anni in mezzo a genti in fuga, vittime di violenze, persecuzioni, regimi totalitari, guerre fratricide, devastanti epidemie. Trent’anni di infaticabile, oscuro lavoro cercando di riparare la “tela lacerata dai continui fallimenti della politica”. Con un solo imperativo: “esserci”, comunque. Filippo Grandi di strade polverose e miglia in volo ne ha macinate tante, forse come pochi altri italiani in giro per il mondo. Di sicuro è l’italiano che ha raggiunto la più alta carica diplomatica all’interno delle Nazioni Unite da sempre, andando a ricoprire dal primo gennaio del 2016 il ruolo di Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr). Proprio nel momento in cui è in atto la più grande emergenza umanitaria dalla fine della Secondo conflitto Mondiale: in giro per il mondo stanno 65 milioni tra profughi e sfollati. Una ‘nazione’ più popolosa dell’intera Italia. “Già. Me lo ricordano in molti”, osserva sorridendo, all’inizio dell’intervista. “In realtà, per usare un gioco di parole, diciamo che mi sento responsabile soprattutto di dire al mondo che tutti dobbiamo sentirci responsabili di queste persone. E’ quanto recita la Convenzione di Ginevra del 1951: avendo perso la protezione del loro Paese, i rifugiati son responsabilità internazionale. Detto questo, molte volte gli Stati dove arrivano i profughi sono spesso senza risorse. Allora interveniamo noi, con un lavoro di supporto e di supplenza”.
Trent’anni tutti vissuti sempre dentro le agenzie di cooperazione internazionale e, dal 1988 nell’Unhcr, bastano e avanzano per essere una vocazione. E sono sufficienti per un bilancio di vita. Da qui anche l’idea di Grandi, che oggi di anni ne ha 59, di scrivere un libro (“Rifugi e ritorni”, Mondadori) che racconta la lunga esperienza come operatore umanitario. “Non una biografia, ma un tirare le somme di una esperienza lavorativa e per non dimenticare tanti drammi. Per spiegare in cosa consista il mio mestiere e cosa serva per farlo”.
Tutto iniziò nel 1984, quando allora giovane laureato, alla fine del servizio civile, decise di partire dalla sua Milano per la Thailandia, come volontario del Catholic Relief Services (Crs), la Caritas della Chiesa Cattolica Americana, per assistere i profughi cambogiani fuggiti dalla guerra. “Fu un anno e mezzo di fondamentale importanza per me”, ricorda. “Però, pensavo, si trattasse di un’esperienza temporanea. E invece…”. Erano anni in cui operare nell’Unhcr non era così popolare come adesso. “Gli amici, allora, mi presero per matto. Oggi gli italiani dentro l’Alto Commissariato per i Rifugiati sono al terzo posto come nazionalità, dietro solo ad americani e francesi”.
Che mestiere fa il funzionario nell’Unhcr?
«È una professione sulla quale si raccontano tante leggende. Un lavoro che richiede una certa dose di coraggio, ma non più di quello che deve avere il chirurgo quando opera. Soprattutto esige molta tecnica ed esperienza sul campo».
Uno degli aspetti più delicati della “macchina” dell’Alto Commissariato è il sistema di finanziamento. Come funziona?
«L’Unhcr conta 15 mila operatori dislocati in 126 Paesi. Il nostro budget è di sette miliardi di euro l’anno. Ma, contrariamente a quanto avviene per i caschi blu, il finanziamento degli Stati è volontario, quindi varia di anno in anno: nel 2016 abbiamo ricevuto 4 miliardi di fondi, cioè il 55% del nostro bilancio (che è il record da sempre). È ovvio che in questo modo non possiamo finanziare tutto ma fare una scaletta di priorità».
Quali Paesi donano di più?
«Gli Usa, che nel 2016 hanno dato un miliardo e mezzo di euro, cioè il 35% del totale. Al secondo posto c’è la Germania, con 350 milioni, alla pari della Commissione Europea. Poi ancora: Gran Bretagna, Svezia, Norvegia e Francia. L’Italia, che col governo Renzi ha aumentato la sua parte, ha dato 30 milioni».
Se l’amministrazione Trump tagliasse i finanziamenti a favore delle spese per gli armamenti?
«Saremmo in gravi difficoltà per il 2018. Conto sul Congresso che è contrario ai tagli».
E stabilizzare i finanziamenti?
«Il mio predecessore, Antonio Guterres (ora Segretario generale dell’Onu, ndr), aveva proposto che anche per i nostri fondi ci fossero quote obbligatorie. Il clima politico, tuttavia, oggi è molto cambiato: per capirci, Trump chiede che decada l’obbligatorietà anche per i fondi destinati ai caschi blu. Questo ci costringe a fare progetti a breve respiro, di strettissima emergenza».
Ma una politica come questa non finisce per aggravare ulteriormente il fenomeno già arrivato a livelli record?
«Certo. Se ci tagliamo i finanziamenti, non essendo noi a ospitare i rifugiati, ma nazioni senza risorse, vicine alle guerre, il mancato aiuto si trasforma in incentivo per queste persone a muoversi. E ciò destabilizzerebbe ulteriormente la situazione, per tutti: per i rifugiati, per i Paesi ospitanti, ma anche per l’Occidente. È quanto accadde nella crisi siriana, nel 2013, quando il Programma alimentare mondiale tagliò di metà gli aiuti ai rifugiati siriani nei Paesi vicini. Ciò causò l’esodo in Europa e il conseguente sviluppo dell’organizzazione criminale dei trafficanti. Solo dopo, e cioè nel 2015 e 2016, i donatori europei si decisero ad aumentare gli aiuti per la Siria».
La distinzione tra rifugiati e migranti economici ha ancora un senso?
«Sì. E credo sia importante mantenerla. Un rifugiato non può venire rimandato indietro, perché rischia la vita. La povertà di per sé non minaccia direttamente l’esistenza, se non in alcuni casi. Bisogna invece individuare alcune categorie intermedie di cosiddetti “immigrati vulnerabili”, senza mescolarle con i rifugiati che hanno da decenni precise forme di tutela giuridica a cui sono tenuti tutti i Paesi e con le quali noi possiamo farci forti per garantirne i diritti».
Vuol dire che invece che guadagnarci tutti, finirebbe che perderebbero i diritti anche quelli che ce li hanno?
«Temo di sì. Potrebbe essere una soluzione utilizzare, ad esempio, lo status di protezione umanitaria, che è temporaneo, pensato per chi scappa dalle guerre, allargandolo a chi fugge da siccità e calamità naturali. Insomma servirebbe un approccio diverso alla migrazione, che tenga conto anche delle vulnerabilità che non siano solo causate dalla persecuzione politica o dai conflitti, ma anche da crisi climatiche o economiche. In questo senso, abbiamo lavorato molto per i cosiddetti “rifugiati climatici”, dichiarando quattro grandi aree di crisi: Nigeria, Sud Sudan, Etiopia e Somalia».
L’opinione pubblica occidentale vede queste masse in fuga come invasioni. È così?
«Questa, cifre alla mano, non è un’invasione. In Europa, l’anno scorso, cioè nell’anno di picco, è arrivato un milione di migranti. Una percentuale assai minore rispetto a quella di cui si sono fatti carico altri Paesi, peraltro molto più poveri di noi. Cosa dovrebbe dire, allora, il Libano, che accoglie da solo lo stesso numero di profughi dell’intero Vecchio Continente? O il Pakistan, o il Kenya? Eppure laggiù nessuno parla di invasione».
Conviveremo a lungo col fenomeno di enormi masse in fuga. Come affrontarlo senza renderlo un’emergenza?
«Tanti fattori ci dicono che questo movimento non si fermerà, dai conflitti irrisolti ai regimi abusivi, dai cambiamenti climatici alle situazioni povertà estrema. Ma bisogna guardare a questo fenomeno, come dice anche Papa Francesco, con occhio positivo, come una risorsa, non come una minaccia. Gestirlo e non subirlo. La “demonizzazione” di questo fenomeno ha impedito ai governi di trovare il coraggio di prendere posizioni d’accoglienza comuni in Europa, sfidando le strumentalizzazioni xenofobe».
Intanto la demonizzazione paga elettoralmente: l’Europa è su una brutta china…
«Vero, ma osservo che la solidarietà è ancora molto grande. Lo dico spesso ai nostri governanti: perché non fare leva su questa generosità diffusa nella società civile? Lo abbiamo già visto nel 2015: quanta ne ha espressa la popolazione europea? Che reazione di massa c’è stata in Usa dopo il primo duro editto di Trump contro i rifugiati, poi tradottasi in efficace azione giuridica?».
Xenofobia e accoglienza. Quanto contano gli errori politici di gestione del fenomeno?
«In Europa l’impianto legislativo dell’accoglienza dei rifugiati è molto sofisticata. È stato costruito negli ultimi 30 anni, pensato però per numeri più piccoli. Ha funzionato bene per decenni, perché giungeva qualche decina di migliaia di migranti all’anno. La macchina però non era preparata a un arrivo massiccio di profughi. Né noi umanitari, né i governi europei abbiamo capito che la combinazione di conflitti sempre più vicini a noi, come quello siriano, mutazioni climatiche e crisi economiche avrebbe fatto saltare ogni equilibrio e avrebbe creato masse in fuga mai viste prime».
Tutto da buttare, quindi?
«No, Questo sistema di accoglienza non è da smantellare. Va snellito. Ma la questione centrale per l’Europa, oggi, è ritrovare un’azione e una solidarietà comune, evitando muri e respingimenti».
Cosa si dovrebbe fare da subito?
«Ci sono istituzioni europee preposte alla gestione dell’asilo come l’agenzia Frontex. Ma non sono molto efficaci: non aiutano i governi sul posto a fare i primi screening. Il concetto di hotspot era buono; forse è stato messo in piedi quand’era tardi. E poi il cosiddetto ricollocamento all’interno dell’Unione dei profughi è stato finora un vero fallimento: su 260 mila rifugiati, ne abbiamo ricollocati solo 10 mila. Il “laissez-faire”, in questi casi, non funziona. Il modello Germania, nonostante i problemi politici annessi, invece è efficace: 800 mila li ha accolti bene, assegnandoli ai vari lender, secondo la popolazione e il reddito».
Che parte può avere la cooperazione allo sviluppo per contenere il fenomeno?
«È un tema così importante che l’ho posto in cima ai miei impegni nel mio primo anno come Alto Commissario. Come possiamo mobilitare in modo più strategico le risorse dello sviluppo, che sono molto maggiori di quelle dell’Umanitario e molto più a lungo termine? Non sono mai state usate strategicamente per stabilizzare i flussi di persone. Ma questo concetto finalmente sta prendendo piede, sull’onda della crisi in Europa. Anche la Banca Mondiale sta cambiando le sue politiche in questo senso».
Concretamente?
«Stiamo gestendo con la Banca un suo fondo di 2 miliardi di dollari per investire in educazione e posti di lavoro per rifugiati e per le comunità che li ospitano in più Paesi. E su questa scala è la prima volta che ciò accade».
Ci sono due diritti, quello di emigrare, ma anche quello di restare, che non vengono rispettati.
«C’è chi contesta il diritto a migrare. In realtà chi lo fa difende il diritto a migrare dei ricchi, perché sono solo i poveri a cui non lo si riconosce. Io dico che chi non ha più protezione dello Stato in cui vive ha diritto a chiederlo altrove. Aggiungo che diritto o no le persone migrano, ed è un fatto. Il problema quindi è gestire il fenomeno, se no poi si crea la situazione in cui ci troviamo adesso. Nel 1994, quando è arrivato un milione di persone a Goma in 72 ore noi avevamo i mezzi per aiutare 50 mila persone. La sfida non era se accogliere o meno, ma come far fronte all’emergenza, occorreva un’organizzazione quasi militare. L’Europa è andata in crisi per l’arrivo di poche migliaia di persone al giorno».
Nel 2016 65 milioni fra rifugiati e sfollati. Cifra mai toccata dal dopoguerra. Nel libro scrive che l’umanitario “cerca di unire i cocci dei fallimenti della politica”. Significa che in questi anni i fallimenti della politica sono stati tanti. Se il numero di profughi aumenta sempre più, quali sono le cause?
«C’è più di una causa. Dalla fine della guerra fredda è esploso il problema dei cosiddetti “Stati falliti”: Somalia, Afghanistan, la stessa Siria, e diversi altri. Molte delle guerre di oggi dipendono dal collasso di alcuni Stati. Nel contempo è sempre più evidente che il mondo è multipolare, e perciò ha più difficoltà a risolvere i conflitti, perché gli attori e gli interessi in gioco sono complessi e spesso contrastanti. Il sogno delle Nazioni Unite come luogo dove queste tensioni si ricompongono è ancora più difficile da realizzarsi in un mondo multipolare. Va anche detto che il numero dei conflitti non è molto cresciuto. È la durata che è aumentata. E la violenza contro i civili ha assunto proporzioni che la stessa Croce Rossa dice di non aver mai visto. Un imbarbarimento della guerra senza precedenti».
Emergono tre crisi umanitarie acutissime: Corno d’Africa, Sud Sudan e bacino del Lago Ciad…
«…e aggiungerei la Regione dei Grandi Laghi, che è a rischio di esplosione».
A proposito del Sud Sudan, il Papa ci vuole andare…
«Ho avuto un lungo colloquio, nel settembre scorso, con Papa Francesco. Il Santo Padre non ha certo bisogno dei miei suggerimenti, ma gli consigliai di andarci in visita. La cosa che mi ha impressionato in quel colloquio è stata l’estrema conoscenza delle situazioni. Mi ha colpito la sua preparazione approfondita sulle realtà dei diversi Paesi di cui abbiamo parlato. Anche sul Sud Sudan aveva davvero un quadro chiarissimo».
Nel Papa ha trovato un importante alleato.
«Beh, più che lui il mio alleato, semmai sono io il suo. Spero che il Papa riesca a realizzare il viaggio. Qualche mese fa sono stato in Uganda, alla frontiera nord col Sud Sudan. I profughi che arrivavano ci riferivano storie terribili… l’uso dello stupro come arma di guerra, il reclutamento forzato dei bambini, la pulizia etnica, tutto su una scala spaventosa. Ora la media di arrivi in Uganda è di 3-4 mila persone al giorno. In una settimana farebbero cadere un governo in Europa».
Trent’anni in contesti estremi. L’uomo Filippo Grandi cosa si porta dentro?
«L’esperienza più difficile è stata senz’altro l’esodo dei profughi ruandesi a Goma, dopo il genocidio del 1994. Mi ha segnato profondamente, anche dal punto di vista esistenziale e di fede. Di fronte a quell’immane disastro umanitario ti chiedevi dov’è Dio. Un momento della mia vita davvero drammatico. Vedevo morire 4 mila persone al giorno. Sofferenze disumane. Terrificante, davvero terrificante».
Nel libro parla anche della solitudine di chi fa questo lavoro…
«C’è innanzitutto la solitudine politica. L’operatore umanitario si trova a raccogliere i cocci dei danni della politica, ma nessuno lo aiuta. Io e molti miei colleghi ci siamo trovati in situazioni devastanti da risolvere, con pochi mezzi e risorse, consapevoli che chi poteva intervenire sul piano politico non lo faceva. Ho provato, in Afghanistan e in Ruanda, la solitudine istituzionale: l’emergenza finisce, occorre ricostruire e fare sviluppo, ma gran parte del mondo dell’umanitario se ne va…».
Ha scritto che quando finisce la guerra ma deve ancora cominciare la pace arrivate voi…
«Sì, è vero. È proprio il caso del Sud Sudan. Perché questo Stato, la cui indipendenza è stata appoggiata dall’Occidente e dagli Stati Uniti, è stato poi lasciato andare? Perché è stato abbandonato a se stesso?».
Qual è stato il momento in cui ha avuto più paura?
«La paura è uno dei temi più ricorrenti, nel libro. Ci sono diversi tipi di paura. Durante la guerra civile in Liberia ho provato quella fisica, perché un gruppo di ribelli ci ha tenuti sotto sequestro. Ma la paura più ricorrente è stata quella politica: quando c’è la pressione dei governi, che può essere molto pesante. Infine, c’è la paura dovuta all’esposizione mediatica, come in Ruanda. Ti terrorizza: sei davanti agli occhi del mondo, devi prendere decisioni vitali, e sei sottoposto a un’esposizione senza pietà. Credo che la paura sia sana. È come la febbre, ti aiuta a capire che devi gestire una certa situazione con molta attenzione e prudenza. Non bisogna aver paura di aver paura».