Fabrizio Pulvirenti è il simbolo dell’Italia migliore, solidale e umana, ma anche la speranza della lotta contro il virus Ebola. Originario di Catania ma residente a Enna, il cinquantenne medico siciliano di Emergency è guarito dal virus grazie a un mix di terapie di supporto, idratazione, sieri e farmaci sperimentali, dopo cinque interminabili settimane di ricovero in isolamento.
Dottor Pulvirenti, ci può raccontare brevemente la sua storia?
«È analoga a quella di tanti altri ragazzi degli anni ʼ60. Famiglia del ceto medio catanese, papà impiegato e mamma casalinga. Da bambino ero piuttosto vivace e rendevo abbastanza bene a scuola, ma senza primeggiare». Nella scelta della facoltà universitaria il suo sogno era già quello di occuparsi di medicina umanitaria? «Ho iniziato l’università a 18 anni, un po’ troppo giovane per avere una coscienza sociale. Negli anni successivi, però, ho iniziato a fare volontariato, occupandomi di figli di detenuti. Forse lì ho iniziato a maturare in modo cosciente il mio impegno umanitario».
E l’incontro con Emergency?
«La conoscevo da molti anni, ma ero sempre indeciso a inviare il mio curriculum a causa della missione prevalentemente chirurgica dell’associazione. Poi, qualche anno fa ho letto che cercavano medici internisti e ho inoltrato la domanda».
Come ha maturato la scelta di andare in Africa?
«La passione per l’Africa è iniziata ai tempi dell’università allorché mi sono avvicinato a microbiologia e alle malattie infettive. Poi la passione è diventato un impegno da portare a termine che sono riuscito a realizzare grazie a Emergency».
Quali sono stati i primi sintomi dell’Ebola?
«Il vomito, poi febbre molto alta, fino a 39,5°. Quando si sono manifestati i sintomi mi sono sottoposto al test che è risultato positivo».
Può raccontarci i momenti più scoraggianti della sua malattia?
«Da medico infettivologo e con l’esperienza maturata nel centro di trattamento per Ebola ero cosciente che è una malattia mortale. Appena ricevuta la notizia dell’esame positivo ho avuto paura, è ovvio. Ma tale paura è aumentata quando, nel corso del ricovero allo Spallanzani di Roma, ho manifestato un’eruzione esantematica che poteva essere preludio di una manifestazione emorragica e quindi di un esito infausto». Quando ha compreso invece di essere guarito, a chi è andato il suo pensiero e ringraziamento?
«Il mio primo pensiero è andato alle mie due figlie, Norma e Anastasia. Il ringraziamento prima di tutto a coloro che si sono impegnati in prima persona nelle cure ma anche a tutti quelli che hanno pregato per me».
Gli immigrati che sbarcano in Sicilia non possono passare Ebola agli italiani, per una serie di motivi. L’incubazione fino a 3 settimane è inferiore alla durata dei viaggi della speranza. Ebola, inoltre, non si trasmette con il respiro ma attraverso il contatto con i fluidi. Eppure si è scatenata una vera e propria psicosi...
«Ebola è un mostro terribile e la paura è giustificata. Ritengo tuttavia che la strumentalizzazione della paura, fino a farla divenire una psicosi con la quale alimentare sentimenti xenofobi, sia becera. Io ho provato sulla mia pelle Ebola e dubito fortemente che in quelle condizioni avrei potuto affrontare il lungo viaggio della speranza. È più probabile che l’epidemia raggiunga i Paesi occidentali in prima classe piuttosto che attraverso i barconi: si tratta di una malattia fortemente debilitante non solo in fase acuta, ma anche in fase di convalescenza. Io, per esempio, ancora oggi, ho una profonda ipotonia muscolare che m'impedisce i movimenti fluidi. Figuriamoci affrontare un viaggio in condizioni difficili».
Il suo futuro è in Italia o in Africa?
«Il mio futuro professionale è in Italia, ma l’Africa è e continuerà a essere il mio impegno sociale e umanitario».