Le cose belle della vita sono volate via», canta il protagonista Marzio in La quattordicesima domenica del tempo ordinario, il nuovo film di Pupi Avati. E non lo fa una volta sola ma a più riprese, tanto che quel ritornello finisce per punteggiare l’intera storia, come un lamento. Suo e dello stesso Avati. Nonostante il successo, la fama e le soddisfazioni (Avati ha girato oltre cinquanta film), a 84 anni il celebre regista è ancora affamato di vita. «La malinconia che si respira nel film è anche la mia», ammette Avati. «Non ho mai scritto e girato un film così sincero: mi sono raccontato senza nascondermi dietro ai personaggi, sono venuto un po’ più allo scoperto, anche nelle mie parti più negative. D’altronde, se non lo faccio adesso che la mia vita è prossima ai titoli di coda…».
Ripensando alla sua esistenza e al percorso fatto fin qui, cosa prova?
«Mi considero molto fortunato perché ho avuto la sfrontatezza di chiedere alla vita cose che abitualmente non si osa domandare. Ho vissuto a pieni polmoni e, di questo, sono grato a Dio. Oggi purtroppo questa temerarietà è molto più rara: prevale una sorta di pudore razionale verso i propri desideri. Insegnando nelle scuole di cinema ho spesso a che fare con i ragazzi e la maggior parte di loro spera di diventare attore o regista, ma in realtà non ci crede per davvero. Tutti hanno già un piano B che è quello della rassegnazione e dell’omologazione. Quando ero invece ragazzo, io e i miei coetanei eravamo molto più ingenui: facevamo più somme e meno sottrazioni. Ci illudevamo che un destino strepitoso attendesse ognuno di noi. Devo quindi essere riconoscente a Dio per avere realizzato molti dei miei sogni».
Molti, ma non tutti?
«Come il protagonista, il mio desiderio più grande era sfondare come musicista. E non ci sono riuscito».
Sognare in grande rischia di essere una fregatura?
«No. Non bisogna mai arretrare nel desiderare anche perché in genere, a realizzarsi sono le ambizioni più grandi, non quelle piccole. Le grandi visioni vivono infatti di una tensione diversa, ma sono riservate alle persone probabilmente più sconsiderate, meno legate ai condizionamenti della vita. Io ne ho conosciute diverse: ho lavorato con Pasolini, sono stato amico di Fellini, e loro avevano dei sogni enormi che non avevano paura di coltivare. Purtroppo chi ci ama tende a dissuaderci, nella convinzione di proteggerci. Così facendo invece ci condannano alla rassegnazione, impedendoci di, vedere il nostro potenziale. La bellezza di Marzio, il protagonista del film, è che continua a sognare e non guarirà mai: ecco, sono io questa persona! Il finale è aperto anche per questo: sognare non è sbagliato».
Non ha smesso nemmeno adesso, a 80 anni?
«Soprattutto adesso: nutro ancora l’illusione che tutto possa ancora ribaltarsi, rovesciarsi…».
Il Papa ha tenuto intere catechesi sulla terza età e sostiene che la vecchiaia sia «una promessa di vita: ci ricorda che il meglio deve ancora venire». Anche lei la vive così?
«Diciamo che mi sento profuso di una intellettualità nuova, più vivace, che mi ricorda quella del bambino che sono stato. Se infatti il corpo manifesta tutto il peso del tempo che passa, ed è quasi recalcitrante, la mente invece si apre, perché si libera da una serie di condizionamenti e censure razionali. E no, non si tratta di demenza senile. E sa qual è la qualità che accomuna sia l’anziano e il bambino, elevando la loro qualità di essere umani? La vulnerabilità ».
In che modo sarebbe un valore aggiunto?
«Gli esseri umani migliori sono le persone vulnerabili perché è la fragilità che ti permette di accedere all’altro e comprenderlo. Il vecchio e il bambino piangono e ridono apertamente: non interpretano più un ruolo, non hanno nulla da difendere. Il discorso della montagna, presente nel Vangelo, riassume molto bene tutto questo».
Il Papa ha definito l’uomo un «apprendista della vita» che, tra mille difficoltà, impara il dono della fede. Lei che apprendista è stato: paziente, curioso, scettico?
«Un tipo originale. Per esempio vado tutti i giorni in chiesa e, una volta lì, recito quello che mi piace chiamare il “rosario dei morti”. Anziché la Madonna, prego per tutte le persone che sono mancate, elencando uno per uno i nomi di parenti, amici, collaboratori che non ci sono più… Li affido a Dio. È un momento di preghiera per me bellissimo, quasi di sospensione temporale. Ora finalmente capisco cosa intendeva mia madre quando diceva che recitare il rosario alla Madonna le infondeva una grande gioia».
Lei crede nell’Aldilà?
«Più che crederci, voglio crederci».
Ha dubbi?
«Non è questo il punto. Mi spiego meglio. Di recente sono stato invitato in Cei, per un incontro dedicato all’omelia: la predica è ormai il punto “critico” della Messa, essendo spesso scadente. Ecco, a questi eminenti prelati ho fatto presente che i sacerdoti dovrebbero sempre premettere, all’inizio della loro predica, che è difficile credere. Nessuno infatti crede in Dio h24: non è possibile! Nella mia vita le persone con più fede sono state mia sorella e, forse, mia madre e nemmeno loro erano irremovibili in ogni istante. Si crede infatti per bagliori: la fede è un dono che ti viene dato. I momenti in cui si crede sono quelli in cui ci si sente amati: è lì, in quell’attimo, che ti senti parte di qualcosa di più grande, che ti trascende. Assapori la Bellezza della vita e intuisci che, da qualche parte, Qualcuno ti ama».
La spaventa l’idea di morire?
«No. Ho più paura del dolore che patiranno i miei figli quando non ci sarò più. Io non ho ancora perdonato a mia madre di essere morta…».
Qual è stato il giorno più bello della sua vita?
«Il mio matrimonio. In seguito, non sono mai stato così felice come in quel giorno».
Oggi sempre più coppie non reggono alla sfida del tempo.Cosa si è inceppato?
«La locuzione avverbiale “per sempre” è uscita dal lessico: non la si usa più. Noi invece, negli anni ’50- ’60, pretendevamo che esistesse un “per sempre” e non solo in amore ma anche, per esempio, nelle amicizie. Oggi, al contrario, si respira una cautela eccessiva per cui si ha quasi orrore di dire “Lui è il mio compagno”. La stessa convivenza è un donarsi all’altro con tutte le precauzioni del caso. Invece la bellezza della vita è proprio questa “follia” di darsi totalmente, senza riserve. Rinunciarci è come abdicare alla parte più affascinante dell’avventura umana».