Quando sono stato assunto a Famiglia Cristiana, il 17 febbraio 1992, l’allora caporedattore Pier Michele Girola mi assegnò l'affaire Mario Chiesa come primo servizio: “Hanno arrestato il presidente della Baggina, socialista, uomo di Craxi e candidato sindaco di Milano, comincia da lì, è molto più grossa di quel che sembra”. Nessuno dei due, naturalmente, si immaginava che avessimo a che fare con l'inizio della fine della Prima Repubblica e che quel servizio sarebbe diventato una sequela di servizi lunga due anni, dal 17 febbraio 1992 fino – per fissare una data convenzionale – alla famosa discesa in campo di Silvio Berlusconi, nell’aprile 1994. Mentre guardo scorrere le immagini di “1992” al ritmo di fusion e di rock, ripenso a quelle settimane frenetiche in cui ogni notizia era più clamorosa dell’altra e ci mangiavamo le mani per poter uscire solo una volta alla settimana. Un'orgia di arresti e avvisi di garanzia: imprenditori, ras di partito, deputati, onorevoli, ministri, brasseurs d'affaires, inquisiti o arrestati, su su fino all’intero sistema, alla disintegrazione dei partiti nati nel Dopoguerra. Una sequela di processi, anche in televisione (come quello - celebre - ad Armanini), confessioni pubbliche, latitanze illustri, drammi personali e suicidi eccellenti.
Ricordo un’intervista al cassiere della Dc lombarda, Maurizio Prada, in cui parlava pacatamente di piano nobile e sentina della politica. Non aveva avuto difficoltà a spiegarlo a Di Pietro. L’intervista venne pubblicata nel numero di Famiglia Cristiana che per combinazione aveva in allegato il primo volumetto di Delitto e castigo. Di Pietro, che aveva acquistato la rivista all’edicola di Palazzo di Giustizia per passarla al microscopio, prese il capolavoro di Dostoevskij e lo mise in bella vista sulla sua scrivania. Quel volumetto in copertina rigida, con il titolo e il logo di Famiglia Cristiana inciso in caratteri dorati, stette lì per giorni e giorni, quasi come ammonimento, in modo da suggerire una sottile aura inquisitoria durante gli interrogatori. Era così quel magistrato che veniva dai ranghi della Polizia di Stato: non lesinava suggestioni, trucchetti da vecchio commissario, bluff clamorosi ma efficaci. “Sarebbe piaciuto a Sciascia”, scrissi (e non me ne pento, anche se quando Di Pietro entrò in politica un commentatore mesciato mi rinfacciò a posteriori il lusinghiero giudizio).
“Qui in procura siamo tutti compatti, non ci fermerà nessuno” ci tenne a sottolineare durante un colloquio finito in un altro numero. Nella fiction i suoi metodi sono ben rappresentati: come quando si inventa la cartella “Fondi Neri” per suggestionare l’ex moglie di Mario Chiesa e spingerla (come poi fece) a spiattellare dove teneva i conti segreti in Svizzera. Anche se si tratta di una sceneggiatura liberamente ispirata, anche se siano solo alle prime due puntate, mi pare che la figura del magistrato allora 46enne sia stata ben delineata. “Tonino”, come lo chiamavano i cronisti più avvezzi, era proprio così, un investigatore dalle scarpe grosse e dal cervello fino che dava la caccia agli inquisiti con testardaggine contadina. Meno calzante è certamente la figura del procuratore Borrelli, personaggio autorevole, scostante e altero - che un giorno aveva fatto piangere una dei suoi sostituti con una sola occhiata severa - davanti al quale mai e poi mai l’allora giovane Di Pietro si sarebbe potuto rivolgere come nella serie televisiva.
Ma nel complesso - a mio modesto parere - la sceneggiatura riesce a cogliere il senso dell’inchiesta: la scoperta dipietresca della “dazione ambientale”, quel meccanismo corruttivo in base al quale tutti si sentivano in dovere di corrompere o di estorcere (“nessuno chiede, nessuno offre”, spiega uno dei protagonisti), il lavoro certosino negli uffici di Palazzo di Giustizia, il caravanserraglio dei giornalisti su e giù nei corridoi armati di telefonini (che poi erano "telefononi"), il domino giudiziario che avrebbe smantellato i grandi partiti, il terribile vuoto politico che qualcuno avrebbe poi riempito, con metodi assolutamente innovativi: "Bisogna pur salvarla questa repubblica delle banane", dice Dell'Utri al giovane guru del marketing interpretato da Stefano Accorsi. Senza dimenticare quella Lega Lombarda che trasformava il voto da ideologico a identitario e che da lì a due anni avrebbe conquistato Milano. Era il vecchio che avanza travestito da nuovo. Era solo un giro di giostra chiamato Seconda Repubblica. Era la nuova politica che correva più sui palinsesti che in Parlamento.
A quei tempi non tutto era chiaro ed è merito degli autori aver trovato a distanza di vent’anni il senso di quegli avvenimenti così convulsi. Che si svolsero però – questo è il ricordo del cronista – in un’atmosfera molto diversa da quella che si vede in Tv, dove prevalgono la cupezza e il “noir”. In realtà allora di cupezza ce n’era ben poca perché tutto accadeva nei ruggenti anni Novanta, in quella che era ancora la Milano da bere, anni tutto sommato abbastanza prosperi, forse decadenti ma ancora spensierati, in cui ogni avviso di garanzia veniva accolto dal popolino come una festa, quasi come un gioco da “Isola dei famosi”, come faceva Brosio pre crisi mistica in collegamento con Emilio Fede davanti al Palazzo, in divertenti duetti. "Di Pietro facci un goal"; “Di Pietro sei meglio e Pelè”, erano tra gli slogan ricorrenti della folla che osannava il magistrato al suo passaggio. Altri tempi. Che però spiegano molto dei nostri.