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venerdì 21 marzo 2025
 
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«Quand’ero bambina Adele mi ha insegnato ad amare davvero»

28/12/2015  Cordoglio nel mondo della cultura e del volontariato. E' morta a 85 anni Giovanna Cavazzoni, una vita dedicata agli altri, ai più soli e ai sofferenti. Con il suo Vidas ha assistito migliaia di malati. Riproponiamo la sua ultima intervista resa a Famiglia Cristiana, che l'aveva eletta personaggio dell'anno.

Ci sono incontri nella vita di un giornalista che ti fanno pensare che sia valsa la pena di fare questo mestiere anche solo per quei momenti. Con Giovanna Cavazzoni, classe 1931, fondatrice del Vidas, che aiuta a vivere la vita a chi la sta perdendo, è così. Anche se la responsabilità di “tradurla” sulla carta è grande e reale il rischio di non riuscire a trasferirne la tenerezza elegante e tenace.

Meglio lasciar parlare lei, dunque, per capire come interpreti la misericordia la donna che Famiglia Cristiana ha eletto personaggio del 2015, un anno che ci invita, ancor più, a vivere compassione, carità e pietà.

«Se penso alla misericordia, non penso a una parola. Penso a un gesto, a una persona, a un malato. Penso ad Adele, una mamma di 4 figli di 34 anni, che aveva fatto ritorno a Rossino, sopra Calolziocorte, dove vivevo da bambina. L’avevano dimessa dall’ospedale di Lecco con la sentenza: due o tre mesi di vita. “Difficilmente arriverà a Natale!”, si diceva, ma le donne del paese non persero tempo a parlare. C’era tanto da fare. Mi ricordo che mia madre, che faceva la direttrice didattica, era rimasta colpita dalla più anziana che, quaderno alla mano, teneva le fila: Maria la cura nel pomeriggio, Rosa fa la spesa e cucina, Teresa ha detto che stirerà, Lucia, la levatrice, che sa fare da infermiera, si occupa delle medicazioni… Era quella che oggi chiameremmo coordinatrice. Che registrava un compito preciso per ciascuna. Anche chi non se la sentiva di stare vicina alla malata nel dolore – “Cosa le dico, cosa le rispondo, se mi chiede?” – era disposta però a tenerle i due bimbi più piccoli. Gli uomini si erano messi accanto al marito che stava per crollare».

Sta dicendo che la misericordia va vissuta con i fatti e non è solo tenerezza ideale da condividere a parole?

«Fu una grande lezione di vita. Attorno a quel letto c’era un umanissimo “tutto”: rispetto, ascolto, sostegno nel corpo e nell’anima, scambi di parole e pensieri, direi serenità. Le cure non mancavano. C’erano il medico condotto disponibile e il parroco don Giustino con la sua sensibilità e il suo carisma buono, che faceva anche quello che oggi sarebbe compito dello psicologo. Un sostegno corale, oggi diremmo un’équipe, che mi avrebbe ispirato nella costruzione del Vidas, che permise ad Adele di fare la mamma sino alla fine. Fino agli ultimi giorni tenne il quaderno della spesa, le scadenze dei conti della luce e rammendò i calzini dei bimbi. Mi ricordo che volle salutarci tutti, anche noi adolescenti e io mi chiedevo: “Ma come fa a essere così forte? È lei che dà coraggio agli altri”, e qualcuno, il classico saggio del paese, mi rispose: “I muscoli, quelli veri, te li fa più il dolore della felicità”».

Lei in prima persona se li è fatti così? È dal dolore che ha derivato la forza delicata che si sente standole accanto? Immagino che la separazione da suo marito Claudio Abbado, quando aveva due bambini piccoli, debba essere stato un primo momento terribile...

“Era stato un amore travolgente. Ci siamo conosciuti al Conservatorio, dove studiavo anch’io. Facevo la corista e avevo vinto pure un concorso in Svizzera, ma lui era geloso e mi diede l’out out, poche ore per decidere di sposarlo. Abbiamo vissuto a Siena, dove conobbe Zubin Mehta, che lo chiamò a Vienna. Abitavamo in una casa piccolissima, dove lo spazio era occupato tutto dal pianoforte. Però eravamo giovani e incoscienti. Io un po’ meno… Lui un artista. Quando se ne è andato, avevo 34 anni e due figli. Dopo tre mesi ho scoperto di avere il cancro».

Mamma mia! Non mi dica che anche allora è riuscita a vivere con quell’accettazione e quella serenità per cui tutti, a cominciare dai suoi del Vidas, le vogliono bene?

«Le confido come è andata perché credo che quando si diventa anziani bisogna aiutare i più giovani a comprendere. Per vivere meglio. Ho fatto come accade in teatro: si spegne la luce su un particolare della scena e se ne illumina un altro. Per me si oscurava il dramma dell’abbandono e veniva messa in primo piano l’esigenza di curarmi per continuare a occuparmi dei miei figli. Sono stata fortunata. Poi la malattia si è ripresentata altre due volte. Ogni volta impari qualcosa in più. Invece viviamo in una società che allontana il pensiero della malattia e tanto più della morte. Ai primi tempi di Vidas, quando cercavo di sensibilizzare le persone per finanziare l’assistenza domiciliare, alcuni cominciarono a evitarmi».

Ho provato anch’io. C’è chi ti vede senza capelli per la chemioterapia e attraversa la strada per non incrociarti. Ma non crede che sia l’imbarazzo di non sapere che cosa dire?

«Parlare, parlare… Bisogna chiedersi: io che cosa posso fare? Senza paura. Proprio il contrario di quel che fanno molti intellettuali. Per fortuna c’è tanta gente semplice, che fra l’altro è quella che dona di più, con gioia. E non si fa contagiare dai messaggi di una società che celebra la chirurgia plastica, un malinteso senso dell’allungamento della vita, il benessere del possedere, come ci ha insegnato un decennio di berlusconismo… Il tabù della morte ha sostituito quello del sesso. Ha messo radici in tempi in cui oltre a ricuperi sociali insperati ci sono state grandi perdite di cui nessuno si andava accorgendo. L’orizzonte era il profitto da raggiungere producendo a tutti i costi. La vecchiaia da accudire e l’accompagnamento alla morte sono diventate un ingombro da mettere dietro le quinte: attività costose con i bilanci economici ed emozionali decisamente in rosso. E la morte uno scandalo. Lo vedo bene quando vado a battere cassa per sostenere il Vidas non solo con la generosità del 5 per mille che molti, per fortuna, ci donano. E pensare che il mio sogno sarebbe stare solo in Casa Vidas, con i malati che in quel pugno di giorni riescono a fare cose non realizzate in anni e anni di vita, riabbracciare un figlio, dire finalmente “ti amo”, chiedere scusa… Sa quante cose importanti sono successe su quella terrazza che sembra anonima, ma ha visto abbracci, pianti, carezze più importanti delle tante cose che si anelano nella vita per poi vederle sbriciolare in un attimo. Il mio cuore è pieno di immagini che mi regalano quella serenità profonda, che sta giù giù dentro di me e che non ha niente di quella letizia superficiale che provi un momento e che sparisce subito. Ma per realizzare i sogni, come l’hospice pediatrico che stiamo per costruire, ci vogliono i fondi e quindi le mie giornate, 8, 10 ore, trascorrono in sede a chiedere».

Ma da quando l’ho intervistata nei primi anni Ottanta, nella sede di viale Piave a Milano, i suoi progetti sono diventati ben più concreti di semplici sogni…

«È da una vita che cerco di educarmi a combinare le visioni di quanto si potrebbe fare con la fattibilità: la prima équipe domiciliare, la seconda, la terza… L’hospice che è diventato un luogo dove si fanno anche dibattiti e spettacoli. Altro che casa della morte! Del resto, erano considerati un po’ matti anche alcuni grandi del passato che si sono piegati sulla sofferenza. Come Giovanni Ciudad, il fondatore dei Fatebenefratelli, che scrisse le regole di una sintesi di assistenza medico-infermieristica e amore per gli altri. Insegnava già ad ascoltare e confortare il malato “con diligenza ma anche con pazienza e con calma”. La storia del “folle” Ciudad racconta che per curare i primi malati vendeva al mercato di Granada legna che era andato a raccogliere all’alba sulle vicine alture dell’Andalusia. Anche Vidas è nata povera, ma ricca di passione e amore gratuito per i più sofferenti. A far legna siamo andati anche noi nelle foreste metropolitane dell’indifferenza, nelle quali abbiamo via via aperto spazi di generosità e condivisione, una semente rara ai nostri giorni, che dobbiamo continuare a spargere».

In famiglia, a scuola, in Chiesa?

«Noi adulti dobbiamo trovare di continuo il modo di impegnarci per trasmettere ai giovani la bellezza di amare il prossimo. Io credo di averlo fatto con i miei figli Daniele e Alessandra, che prima di tutto sono due persone buone, e con i miei tre nipoti. Per fortuna io ho avuto un padre speciale. Benché venisse da una famiglia povera, era arrivato a diventare imprenditore e ministro, del Lavoro, ma la sua passione fu aiutare don Orione a fondare il Piccolo Cottolengo di Milano e continuare a insegnarci che il denaro superfluo toglie la pace, mentre lo sguardo di chi è alleviato da un dolore regala vita. Come ci insegna sempre papa Francesco. Da lui ci si sente protetti. Dalla sua tenerezza ma anche dal suo umorismo».

È per questo che le piace parlare di felicità del non possesso?

«L’ho detto spesso ai miei a proposito di Casa Vidas, che sta su un terreno che non ci appartiene, come non ci appartengono le mura costruite con i soldi dei donatori, compresi quelli che hanno acquistato un biglietto per uno dei tanti concerti che i nostri amici musicisti, a cominciare dal mio ex marito, ci hanno donato. Tra 45 anni scadrà il comodato gratuito con il Comune di Milano ma siamo sicuri che verrà rinnovato. Questa strana formula di “multinonproprietà” non ci dà per nulla l’impressione di essere precari: anzi, ci sentiamo leggeri. E questo dovrebbe valere anche per altri in tempo di andamenti finanziari ed economici altalenanti. Se si punta troppo sul denaro, c’è il rischio di buttarsi con accanimento a contrastare situazioni negative, azzerando il tempo per i rapporti umani più semplici e lievi con conseguente stress e depressione, una malattia che dilaga purtroppo anche tra gli adolescenti».

Sa che cosa dovrebbe fare? Mollare tutto e andare lei a parlare con loro nelle scuole...

«Dice? Le confesserò che io ho quello che penso sia un problema personale. Non sono mai riuscita a guardarmi dall’esterno, a capire come mi vedono gli altri».

Una cosa però gliela devo chiedere. Ogni tanto le capita di immaginarsi i volti di tutte quelle donne e quegli uomini, e quei bambini – per quanto vengano i brividi solo a immaginare simili situazioni – che grazie a lei, al suo coraggio e alla sua misericordia, non hanno vissuto, oltre al distacco dalla vita, quei mali orridi come la solitudine e la disperazione che stendono un ulteriore velo nero sulla sofferenza?

«Senta, Renata: lei ha mai visto quegli stradini che, magari nel mese di agosto, con 40 gradi, stanno sotto il sole a rifare l’asfalto? Quello è merito. Lavoro schiacciante e silenzioso perché noi, belli comodi, possiamo camminare senza inciampare in una buca… E un premio, un Ambrogino, un riconoscimento non glielo ha mai dato nessuno. Forse in quest’Anno della misericordia dovremmo imparare di nuovo a dar merito».  

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