Nell’ufficio di don Franco Esposito, cappellano del carcere di Poggioreale e responsabile del Centro di pastorale carceraria della diocesi di Napoli, c’è in bella mostra un quadretto con una citazione di una canzone di Fabrizio De André, Via del Campo: «Dai diamanti non nasce niente / dal letame nascono i fior». Ci vuole poco per capire che il «letame» cui allude il sacerdote è l’umanità derelitta che affolla le carceri italiane, in particolare quello di Poggioreale, il più sovraffollato d’Italia, dove le condizioni di vita dei detenuti sono drammatiche.
LUOGO DI LIBERAZIONE
Un giorno, un detenuto gli regalò un disegno. Lui ha deciso di utilizzarlo come logo della struttura, bene esposto sul portone d’ingresso. Vi sono raffigurati il pane eucaristico e delle catene spezzate. «Simboleggiano la condivisione e la liberazione, entrambi doni che vengono da Cristo», spiega don Franco, mentre ci accompagna in giro per il centro, aprendoci le porte dei vari laboratori. Quello della liberazione è un concetto fondamentale qui nella struttura che sorge in cima al quartiere della Sanità, uno dei più difficili di Napoli.
Don Franco è un sacerdote molto concreto, che predilige la pratica ai discorsi teologici. Quando però gli chiediamo perché la diocesi abbia deciso di aprire questo centro, che ospita quasi quaranta detenuti beneficiari di misure alternative al carcere, non ha un solo secondo di esitazione nel rispondere: «Cristo stesso, nei Vangeli, ci chiede di occuparci dei detenuti. Addirittura si identifica con essi, una cosa scandalosa agli occhi degli uomini. Come può infatti Gesù, lontano anni luce dal peccato, identificarsi con dei malfattori? Eppure egli ci dice: “Ero in carcere e mi avete visitato” (Matteo 25,36)». Insomma, per don Franco e per tutti i volontari del centro non c’è differenza fra Gesù e i detenuti che ospitano qui. Quello che fanno a loro, sanno di farlo a Cristo stesso.
Nei vari laboratori i detenuti strappati all’inferno di Poggioreale sono impegnati in diverse attività, quasi tutte collegate alla fede. C’è un gruppetto che confeziona rosari. «Quando li consegniamo ai religiosi per cui li facciamo, chiediamo di pregare per noi», ci spiegano i ragazzi. «Bisogna uscire dalla sola logica della punizione», dice don Franco. «D’altronde le statistiche ci dicono che l’80 per cento di coloro che entrano in carcere vi ritornano. Questo vuol dire che il modello esclusivamente punitivo è una strada che non può funzionare. I ragazzi hanno bisogno di esempi positivi: solo così possono prendere coscienza del male commesso ed elaborare nuove idee per la loro vita. È quello che cerchiamo di fare qui».
Don Esposito ci spiega che «la Chiesa italiana è sempre stata in carcere per occuparsi dei detenuti. Ora però è in atto una nuova stagione, in cui le diocesi e le parrocchie ospitano i detenuti con misure alternative al carcere, grazie alle quali la recidiva si abbassa notevolmente».
DIO ASPETTA A BRACCIA APERTE
Alfredo e Dragan sono due ospiti del centro. «Il carcere ha poco di riabilitativo», dice il primo. «Quando ci sono entrato, ero disperato. La mia famiglia mi aveva allontanato. Si vergognava di me. Lo stesso ha fatto mia moglie. Un giorno decisi di confessarmi. Ma mi sentivo in colpa. “Sono qui solo perché vivo un momento difficile”, mi dicevo. Ma poi mi sono convinto che a Dio non importava e che mi aspettava a braccia aperte. Così ho cominciato ad andare regolarmente a Messa, e ora sono qui. E vorrei restare anche quando avrò terminato di scontare la mia pena per aiutare gli altri detenuti». Poi si lascia andare a una confidenza: «La mia conversione è merito di una religiosa, suor Lidia, che non mi ha mai fatto sentire giudicato. Se non fosse stato per lei, probabilmente avrei potuto anche togliermi la vita. Ma ora sono solo brutti ricordi».
Chiediamo ad Alfredo per quale reato sia finito dentro. Dopo la sua risposta, che non riferiamo, cala il gelo. Alfredo ci spiega: «Vedi, in tanti anni, suor Lidia non mi ha mai chiesto cosa avessi fatto. Si è semplicemente occupata di noi». Don Franco conferma: «Non ci interessa quali reati abbiano compiuto i detenuti. Ci interessa che cambino vita». Dragan, che è serbo, racconta delle botte ricevute i primi tempi dagli agenti penitenziari. Anche lui ha conosciuto in carcere una religiosa che gli ha cambiato la vita, suor Anna Maria. Anche lei è fra i tanti cristiani impegnati nelle carceri italiane perché da quello che per la società è «letame» nasca qualcosa di bello e di buono.
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