Siamo stati tutti bambini, abbiamo fatto tutti sport con molto o scarso talento (statisticamente più con scarso), siamo andati tutti a scuola, abbiamo fatto compiti più o meno di lena (statisticamente più di malavoglia). Come i bambini di adesso abbiamo sognato di vincere e abbiamo avuto poca voglia di fare i compiti. Avevamo il vantaggio di andare a scuola meno ore (ma per chi viveva situazioni disagiate era uno svantaggio), avevamo lo svantaggio di avere minori opportunità (ma a volte era un vantaggio: non avevamo giornate piene come dirigenti d’azienda).
Insomma ci succedeva, vent’anni fa, trent’anni fa, quarant’anni fa, quello succede ai nostri figli oggi, piccoli accidenti quotidiani: un voto bruttarello a scuola, una papera sul campo di calcio, un capriccio per non fare i compiti, una figuraccia a tennis da gestire. Di diverso c’era che queste minuscole questioni non facevano notizia: oggi invece leggiamo che un allenatore di squadre giovanili si dimette perché i suoi calciatori di 14 anni hanno padri troppo invadenti, che pretendono di decidere i minuti in campo del figlio e di metter bocca persino nel ruolo mentre i compiti delle vacanze e a casa sono un affare che tiene banco da settimane su facebook e di rimbalzo sui giornali.
Di diverso, osservandoli a posteriori, c’erano i nostri genitori. Non erano distratti, anzi. Non erano anaffettivi, anzi. Ma badavano al sodo: la scuola era la scuola e andava rispettata. Se pensavano che qualcosa non andasse, ne ragionavano tra loro, magari andavano a discuterne a scuola, faccia a faccia, ma a nostra insaputa, in modo che la scuola non uscisse ai nostri occhi esautorata. E comunque valeva il principio per cui se uno aveva un insuccesso scolastico la strada maestra per superarlo era studiare di più o studiare meglio e i compiti erano considerati il nostro dovere : generalmente sormontabile, al netto di qualche mugugno.
Al nostro sport guardavano come a un divertimento sano: si andava per muoversi un po’ e secondariamente a imparare calcio, tennis, pallavolo o chissà che altro. L’agonismo era una scelta non un dovere. I più imparavano senza trovarsi le domeniche intrise di convocazioni e partite. E comunque, in caso di partita, mamma o papà ti accompagnavano, a volte si fermavano a tifare, il più delle volte semplicemente ad aspettare, gettando un’occhiata distratta all’incontro, mentre parlavano di cose da adulti con altre mamme e altri papà.
Ne conseguiva che vincere, perdere, giocare o fare panchina non diventavano un affare di Stato e portavano una lezione da imparare con naturalezza, senza grossi traumi: che lo sport (ma valeva anche per chi si dedicava alla musica) è anche una questione di talento e ciascuno ha il proprio. Accettare senza invidia e senza soffrirne eccessivamente che c’è uno più abile di te è un’esperienza utile alla vita (ce ne sarà sempre uno più alto, più bello, più intelligente, più talentuoso, più fascinoso, crescere immuni dal virus dell’invidia è un’assicurazione sulla serenità della vita). E comunque si imparava che impegnandosi si poteva migliorare un po’ e che, in ogni caso, ci si poteva divertire senza diventare campioni o concertisti e che nella vita non si può vincere sempre.
I nostri genitori erano migliori? Forse no. Erano diversi, figli di un mondo diverso, meno ansiogeno che dava ai figli qualche opportunità in più e non deviava tutto verso la competitività esasperata di ora, certo dettata dalle poche opportunità per tutti. Cambiare il mondo non possiamo, dobbiamo fare i conti con questo. Però chissà forse ripensare ogni tanto a com’erano i nostri genitori e a com’eravamo da bambini potrebbe aiutare a ridurre l’ansia. Anche quella dei bambini.