Pensare con la propria testa e amare con il proprio cuore. Sapere che i talenti ricevuti vanno coltivati non solo per sé stessi, ma messi a disposizione del mondo. Le scuole dei Gesuiti – oltre 5 mila studenti in Italia e circa due milioni nel mondo– continuano a proporre un modello educativo che ha come obiettivo, con le parole di padre Pedro Arrupe, quello di «formare uomini con e per gli altri», di far capire a ciascuno quali sono le sue qualità e come metterle a disposizione degli altri «per costruire un mondo più umano e più giusto».
All’appuntamento con il Papa, in aula Nervi il 7 giugno, arrivano in oltre 9mila. Molti anche da Scutari, dal liceo Atë Pjetër Meshkalla, l’ultima scuola aperta dai Gesuiti italiani. È l’unica, delle sette, fuori dal territorio nazionale.Insieme con loro, gli alunni del Sociale di Torino, del Leone XIII di Milano, del Massimo di Roma, del Pontano di Napoli,del Sant’Ignazio di Messina, del Centro educativo ignaziano a Palermo.Hanno preparato disegni, poesie,lettere e domande. Dai più piccoli delle scuole materne fino agli studenti delle superiori ciascuno ha un suo pensiero da consegnare a Francesco. Con lo stile tipico di queste scuole che è quello di lasciare la parola agli studenti più che agli insegnanti. «È una tradizione antica che viene da sant’Ignazio», spiega padre Vitangelo Denora, delegato per i collegi della Provincia d’Italia e di Albania e direttamente responsabile per le scuole di Torino, Milano e Napoli.
«Sant’Ignazio pensava a una pedagogia più attiva: non il professore che parla,ma gli alunni che intervengono, che fanno molto lavoro personale e cooperativo. Il tutto, e questa è una nostra caratteristica che anche molti ex alunni ci riconoscono,per arrivare a sviluppare il pensiero critico, per aiutare le persone a pensare con la propria testa». La rete italiana fa parte di una più vasta che comprende, nella sola Europa, 170 istituti. Scuole all’avanguardia per ricerca e tecnologie, che si rifanno però tutte al modello pedagogico ignaziano, cioè, spiega padre Denora, «a una didattica molto laboratoriale, molto centrata sulla persona e sul percorso che ciascuno ha.Ognuno è chiamato a scoprire le proprie passioni, i propri talenti, a nascere a sé stesso, a vivere da protagonista».
Quando la prima scuola fu aperta a Messina nel 1500, con l’idea di
aiutare le persone a partecipare ai cambiamenti che si stavano
producendo intorno a loro, una delle frasi più usate dai gesuiti era «il
mondo è la nostra casa». Oggi,spiega padre Denora, «le frontiere
della nostra pedagogia sono ancora quelle di costruire cittadini del
mondo, aperti a quello che sta succedendo intorno a noi, a loro. Il
mondo si fa più grande, più connesso e l’apertura è una delle
caratteristiche che devono avere oggi i ragazzi per abitare questo mondo
da protagonisti. Dobbiamo aiutare i ragazzi a vivere il mondo come la
loro casa». Concretamente, significa imparare le lingue, usare le nuove
tecnologie. In ogni classe c’è la lavagna elettronica e si usa il tablet
per insegnare che gli strumenti possono servire anche per la scuola,
per apprendere, per costruire la lezione insieme con gli insegnanti. In
modo gioioso, altra caratteristica del metodo ignaziano.
E poi l’apertura agli altri, anche con l’inserimento, per esempio,
dello studio del cinese come lingua curriculare per gli studenti del
liceo classico di Torino e come attività integrativa pomeridiana per gli
altri istituti. Alle ultime classi, poi, viene proposta la gita di
fine anno a Pechino. Sempre a Torino, ma anche a Milano, è stato avviato
il liceo sportivo. Per i liceali di tutti gli indirizzi sono previsti,
nei programmi obbligatori,i campi missionari. Volontariato in Italia o
all’estero, in particolare in Romania e Perù. E poi attività espressive,
laboratori d’arte, teatro.Seguiti da docenti formati con appositi
corsi, gli studenti imparano «a sorgere a sé stessi e ad abitare il
mondo», sottolinea padre Denora.
Spesso da protagonisti, come dimostra la storia dei tanti uomini
politici, scienziati, imprenditori,artisti che sono passati dai banchi
dei Gesuiti. Qualcuno entra anche nella Compagnia di Gesù, ma questo non
è l’obiettivo. «La nostra tradizione», conclude Denora, «è più
laica e ha la caratteristica della totale gratuità. Gesù non guariva le
persone perché poi lo seguissero.Le guariva perché si tirassero su e
andassero per il mondo a testa alta. È quello che cerchiamo di fare
anche noi facendo sì che i ragazzi, che spesso non ci credono, diventino
consapevoli della loro dignità. Per essere capaci di scoprirei propri
talenti e di utilizzarli a servizio dell’umanità intera».
«Ho avuto da loro un imprinting fortissimo perché mi hanno insegnato a credere profondamente nel dialogo tra le culture a partire da una grande consapevolezza del proprio io. E anche della propria fede. Capacità di dialogo assoluta, apertura mentale, primato dell’intelligenza e del cuore e curiosità infinita sul mondo che è il mondo creato da Dio». Il giornalista Giovanni Minoli, che ha frequentato il Sociale di Torino dalla prima elementare all’ultima del liceo, ricorda anche la «presenza di padre Lombardi, oggi portavoce vaticano, che all’epoca era padre prefetto», e di molti altri, in primis Carlo Maria Martini. «Era una vera fucina. Era uno stimolo. È stato un grande viaggio interiore, con una grande apertura al mondo e alla conoscenza, nella Chiesa, del sociale. Sull’arcata d’ingresso c’era scritto Semper ad maiora e Ab alto ad altum, due veri stimoli a non rinunciare mai a crescere, ad alzare l’asticella sotto tutti i punti di vista nella vita. Una ricerca continua dell’eccellenza».
«I Gesuiti mi hanno dato una formazione critica, non dogmatica, e mi hanno educato all’assunzione di responsabilità». Piero Fassino, alunno del Sociale dal 1961 al ’69 a Torino e oggi sindaco della città, è grato ai Gesuiti anche perché «mi hanno insegnato valori forti di solidarietà e rispetto dell’altro. Sono valori importanti, che mi sono serviti molto nella mia vita. Mi porto dietro questi valori e a essi ispiro anche la mia attività politica». I Gesuiti ha continuato a frequentarli: «Per me questo rapporto è stato importante soprattutto nei momenti difficili. Avere questa possibilità di confronto è stato fondamentale. In particolare con padre Piero Buschini, mio insegnante al liceo, che ancora adesso mi accompagna con grande senso di amicizia e di affetto nonostante non stia bene in questo momento». Presentandolo a una festa dell’Unità, molti anni fa, Fassino lo indicò come «il miglior prete del mondo». «Non dirlo forte», rispose lui, «mi hanno appena nominato rettore».
Oggi fa il diplomatico, ieri studiava dai Gesuiti, al Massimo di Roma. Staffan de Mistura non smette di «ringraziare i miei genitori per avermi fatto studiare da loro. Il messaggio più forte che ho avuto è stata la parabola dei talenti con il dovere, per chi come noi aveva ricevuto tanto, di ridare indietro alla società, in qualunque maniera, quello che ci veniva offerto dalla comunità. Questo imprinting è rimasto per tutta la vita. Non a caso avevo deciso di fare il pompiere e poi il medico e poi, infine, il medico delle nazioni entrando nell’Onu e occupandomi di missioni di pace e umanitarie in zone di conflitto». Compagno di scuola di Draghi, Montezemolo, Gianni De Gennaro, Luigi Abete, «solo per menzionarne alcuni», de Mistura ricorda un aneddoto «che mi ha dato un insegnamento sulla diplomazia, che è la scelta che ho fatto». Per una serie di ritardi a scuola perché era intervenuto come volontario in alcune iniziative studentesche, viene richiamato dal preside. «Mio padre era deciso a resistere a questo richiamo perché il mio ritardo era giustificato da un’azione nobile. Alla fine del colloquio mio padre mi punì. Capii allora che non basta essere convinti delle proprie idee, bisogna anche essere convincenti come era stato il mio preside».