In Italia esiste un settore che non conosce crisi. Anzi, proprio grazie alla crisi riesce a prosperare. Parliamo del gioco, un business milionario con incassi da capogiro, paragonabili a quelli di colossi industriali come Enel e Telecom. C'è chi ha tutto da guadagnarci e chi invece finisce sul lastrico. Tanti restano intrappolati nella rete: non più giocatori, ma malati. Dipendenti dal gioco, come da una droga. Satistiche alla mano, le categorie più esposte sono quelle più deboli.
Negli ultimi anni questo settore è cresciuto in maniera vorticosa, come dimostrano i dati Istat: nel 2000 ha incassato 14,3 miliardi di euro, nel 2005 la cifra è passata a 28,5 miliardi, che sono diventati 47,5 nel 2008 e ben 61,4 nel 2010. Secondo i dati diffusi dall’Aams (Amministrazione autonoma dei Monopoli
di Stato), il volume di affari delle scommesse e dei giochi legali in
Italia ha raggiunto i massimi livelli proprio nell'anno appena concluso: 76 milioni. In termini assoluti, gli incassi
del 2011 sono cresciuti rispetto al 2010 di 15 miliardi, con un incremento
percentuale del 24,3 per cento.
I dati sono in ogni caso impressionanti specialmente se si tiene conto della generale contrazione dei consumi familiari. Secondo l'Istat, nel 2010, al Nord e al Centro il 63,5% delle famiglie ha comprato meno cibo e bevande, il 13,6% ha anche diminuito la qualità dei prodotti acquistati. Insomma, si tira la cinghia su tutto, compresi i beni di prima necessità, ma per gratta e vinci, scommesse e slot machine non si bada a spese.
In questo quadro la crisi economica ha un ruolo rilevante: in tempi duri, il 'colpaccio' milionario diventa un sogno ricorrente, a volte un'ossessione.
E tanti sono disposti a indebitarsi, inseguendo una chance per vivere
"spensierati e sistemati", come dice il motto dell'ultima frontiera
dell'azzardo sul web. Non è un caso se a spendere più soldi per il gioco
sono proprio le persone che hanno un reddito basso. Secondo i dati
Eurispes tentano la fortuna il 47% degli indigenti, il 56% degli
appartenenti al ceto medio e il 66% dei disoccupati.
La composizione sociale del fenomeno sta cambiando. Ogni anno aumenta
il numero di donne che si avvicinano al gioco d'azzardo e la passione
che questa attività riscuote tra giovanissimi e anziani sta assumendo
contorni preoccupanti: secondo l'Associazione Contribuenti Italiani,
nell'ultimo anno il coinvolgimento di minorenni e pensionati è aumentato
del 7,7%. Giocare non è mai stato facile come oggi. Un'inchiesta
condotta dalla Camera di Commercio milanese rivela che nel capoluogo
lombardo il 2011 ha visto crescere del 21,6% le imprese specializzate
nel settore, che sono passate da 245 a 298. Bar, tabaccherie, sale
giochi, centri scommesse: ecco le mille case della dea bendata.
E ormai, nel gradimento collettivo, le proposte più vecchie come il
lotto e il bingo sono state soppiantate dagli apparecchi tipo slot
machine, che attirano il 55,6% dei giocatori. Poi ci sono le offerte
della rete, dove per puntare basta un clic (molto gettonato, negli
ultimi tempi, è il poker on-line): in teoria per accedervi bisogna
essere maggiorenni, ma un reale controllo è praticamente impossibile.
Nonostante la situazione sia già critica, i monopoli di Stato continuano
a offrire giochi sempre nuovi e sempre più sofisticati. Ecco un
esempio: nel 2009, dopo la tragedia del terremoto in Abruzzo, il Governo
ha deciso di finanziare gli interventi di ricostruzione all'Aquila
mettendo sul mercato nuove slot machine e nuovi meccanismi di gioco,
come il Win for Life. Proposte accattivanti, apparentemente sicure
proprio perché legali, ma in realtà non sempre innocue.
Paradossalmente lo Stato ha cercato di far fronte a un'emergenza sociale
con un'azione che può avere ricadute pesanti, proprio sul piano
sociale. Infatti,aumentando a dismisura il numero dei giocatori,
aumenta anche il numero di quelli che perdono il controllo. Ci sono
persone per cui il gioco smette di essere un divertimento e diventa una
malattia con conseguenze devastanti, paragonabili a quelle delle
dipendenze da sostanze stupefacenti. Recentemente il Censis ha
lanciato l'allarme: secondo le statistiche il 7% dei giocatori italiani è
da definirsi a rischio, mentre i patologici sono il 2%, ma la
percentuale sale fino al 12% tra i più giovani. A prima vista
possono parere numeri contenuti. In realtà è sufficiente rapportarli
alle singole regioni per capire quanto il fenomeno sia esteso. In Emilia
Romagna, ad esempio, si stima che i giocatori problematici siano
176mila, mentre più di 50mila sarebbero i patologici.
Esiste un mondo semisommerso, fatto di storie drammaticamente simili.
Si comincia con l'euforia per qualche vincita, magari piccola, ma
ritenuta comunque importante. E nell'immaginazione il gioco diventa
la soluzione dei problemi, una scorciatoia per la fortuna. Ben presto
però il quadro cambia: i soldi cominciano ad andarsene. Tanti e in
fretta. Allora bisogna inseguirli, giocare di più, alzare la posta,
nella speranza di riconquistare almeno il denaro perduto. Si crea così
quel buco nero in breve tempo finisce per mangiarsi tutto: i risparmi di
una vita, il lavoro, a volte perfino la casa, ma anche le amicizie e
gli affetti familiari. Nonostante la vastità del fenomeno, nel nostro
Paese la dipendenza da gioco è ancora un argomento tabù.
Di solito viene sottovalutata e per definirla si usano termini impropri, come eccesso o vizio. In realtà il g.a.p (gioco d'azzardo
patologico), riconosciuto anche dall'Organizzazione Mondiale della
Sanità, è una malattia a tutti gli effetti e come tale va trattata. A
differenza di quanto avviene in altri Stati, dalla Francia alla Spagna,
dalla Germania agli Usa, in Italia questo disturbo non è inserito nei
Lea (Livelli essenziali di assistenza): ciò significa che i giocatori
patologici non hanno diritto a cure e trattamenti gratuiti.
La cura per il gioco patologico esiste, ma nel nostro Paese è una storia ancora tutta da scrivere: solo in tempi recenti, e non senza fatica, alcune regioni, come Piemonte, Toscana ed Emilia Romagna, hanno avviato percorsi riabilitativi sperimentali. Ma le prime realtà che con coraggio hanno affrontato il problema sono state le associazioni di volontariato, soprattutto quelle che avevano alle spalle esperienza nel trattamento di altre dipendenze.
A Torino, ad esempio, opera da anni il Gruppo Abele di don Luigi Ciotti, conosciuto soprattutto per la sua attività di recupero delle persone tossicodipendenti. «Abbiamo iniziato a occuparci di gioco d'azzardo nella seconda metà degli anni '90 – spiega Leopoldo Grosso, vicepresidente Gruppo Abele – Inizialmente le richieste d'aiuto riguardavano soprattutto i pensionati, che rischiavano di rovinarsi col lotto o le scommesse. Oggi c'è una realtà diversa: arrivano genitori di adolescenti, allarmati perché i loro figli continuano a chiedere soldi per giocare alle slot machine. Basta fare un giro in alcuni quartieri per avere un'idea del problema: come non notare un legame tra il proliferare delle sale da gioco e la crescente diffusione dei negozi 'Compro Oro'? Evidentemente il gioco d'azzardo è una tassazione sulla povertà».
Trovare la forza di chiedere aiuto è ancora molto difficile:
nonostante le statistiche rivelino un fenomeno imponente, su circa mille
persone accolte ogni anno dal gruppo Abele solo una trentina ha
problemi di gioco patologico. «Di solito a lanciare l'allarme non
sono i diretti interessati, che tendono a minimizzare la realtà, ma i
loro familiari. Il primo passo, quindi, è cercare di stabilire un
contatto con i malati». Il gruppo Abele opera su vari fronti. Da un lato
collabora col Sert (Servizio Tossicodipendenze) dell'Asl, ma ha anche
un proprio punto di accoglienza, dove lavorano specialisti e volontari.
«Spesso i giocatori faticano ad avvicinarsi al Sert – spiega Grosso –
proprio perché non accettano di definire il loro problema come una
dipendenza. Da qui l'idea di portare avanti un percorso parallelo».
La cura richiede tempi lunghi. «Questo tipo di patologie»,
puntualizza ancora Leopoldo Grosso, «si affronta con una terapia
cognitivo-comportamentale. Bisogna lavorare sul sintomo, il gioco in sé,
ma anche scavare più a fondo, cercare il disagio che sta dietro.
Infatti quasi sempre il gioco è uno sfogo improprio, un modo per
allentare una forte tensione emotiva, legata a situazioni lavorative o
familiari pesanti. Il nostro percorso prevede anche una terapia di
gruppo. Infatti tra gli effetti più devastanti del gioco c'è l'isolamento:
improvvisamente il malato si ritrova ripiegato su se stesso, chiuso nel
suo mondo. Noi cerchiamo di aiutarlo a ricostruire dei legami".
Anche in altre parti d'Italia sono nati progetti coraggiosi. A Reggio
Emilia, ad esempio, lavorano i pionieri del Centro Sociale Papa
Giovanni XXIII, fondato nel '77 da don Ercole Artoni come punto di
riferimento per gli ultimi, inizialmente soprattutto carcerati, malati
psichiatrici e tossicodipendenti. Da undici anni il Centro affronta il
problema del gioco patologico: con cinque gruppi di aiuto, finora ha
preso in carico oltre 500 persone. L'ultima sfida, partita il 6 novembre
scorso grazie ai finanziamenti della Regione, si chiama Pluto (come il
dio greco della ricchezza, che, distribuendo denaro un po' a caso tra
gli uomini, finiva per renderli avidi e infelici). E' un percorso di
cura intensivo: per 21 giorni i malati vivono insieme in una casa
immersa nel verde della campagna emiliana: in questo modo è possibile
concentrare in un periodo ristretto un trattamento che diversamente
richiederebbe circa 6 mesi.
«Un percorso del genere non basta per risolvere il problema – spiega Umberto Caroni, responsabile del progetto Pluto – Serve poi una terapia protratta nel tempo, anche perché il rischio di ricadute è altissimo. Però
può essere un ottimo inizio». Ogni malato si porta dentro il suo
bagaglio di dolori e illusioni. «Ciascuno ha un gioco preferito –
racconta Caroni – Questo è il primo indizio per far emergere i problemi
che stanno alla radice. Ad esempio chi predilige le scommesse di solito
ripone una fiducia sconfinata nella propria abilità. Chi invece si
lascia attirare da giochi numerici come il lotto fa riferimento al
pensiero magico, nella convinzione che esista un segreto legame tra
eventi della propria vita e particolari combinazioni di cifre. Noi proviamo a smontare questi falsi miti, riportando il malato sul piano della realtà».
In un contesto sociale ed economico difficile, secondo Caroni «i
giochi andrebbero rimessi al loro posto, proprio come il dio Pluto che,
nel finale di una commedia di Aristofane, viene messo a guardia del
tesoro del tempio, una posizione che lo rende utile alla società
impedendogli di fare danni. Tutti i governi dal '90 a oggi,
indipendentemente dall'appartenenza politica, hanno incentivato il gioco
d'azzardo. E' ora che si cominci a prendere qualche provvedimento,
riducendo l'offerta e le possibilità di accesso. Troppe persone e troppe
famiglie stanno pagando il prezzo di questa realtà».
A volte la vita è questione di prospettive: c'è chi lavora sulle conseguenze e chi invece gioca d'anticipo. L'elenco dei pionieri impegnati nella battaglia contro il gioco patologico include anche due giovani studiosi torinesi, un matematico e un fisico: Paolo Canova e Diego Rizzuto. Il loro modo di affrontare il problema è assolutamente inedito. In un certo senso si tratta di una 'terapia preventiva'. Quando, alcuni anni fa, hanno iniziato a lavorare insieme, di rischi, patologie e dipendenze non sapevano quasi nulla. Il loro obiettivo era un altro: volevano trovare un modo divertente per spiegare ai 'profani' che cos'è il calcolo della probabilità.
Il gioco d'azzardo pareva un ottimo spunto, senz'altro più accattivante
di schemi e palline colorate disegnate sui libri di testo. Così hanno
iniziato a studiare i vari giochi, a 'smontarli' per descriverne i
meccanismi di funzionamento. Da questi esperimenti è nato il progetto "Fate il nostro gioco". Ben presto però la ricerca ha preso una direzione diversa. C'erano
troppe incongruenze. Da un lato le leggi matematiche, in base alle
quali, nel tempo, qualsiasi giocatore è destinato a perdere denaro e le
perdite sono tanto più consistenti quanto più aumentano le giocate. Sul
versante opposto la comunicazione martellante, che invita tutti a
giocare, sbandierando vincite clamorose e grandi opportunità. "Noi non
siamo assolutamente contrari al gioco - spiega Canova – Semplicemente
vorremmo che ci fosse un'informazione adeguata. Molte pubblicità, a
cominciare proprio da quelle dei giochi di Stato, contengono messaggi
ingannevoli".
"Fate il nostro gioco" è un progetto con tante facce. Nel 2010 è stata
allestita una mostra itinerante, ospitata anche al Festival della
Scienza di Genova: tra tavoli verdi, roulette e gratta e vinci, i
visitatori hanno potuto toccare con mano i diversi giochi, imparare a
osservarli con l'occhio dello scienziato, capirne gli ingranaggi, le
piccole e le grandi trappole. Il successo di quell'esperienza ha
suggerito di organizzare una serie di incontri per raccontare con un
linguaggio semplice e a un pubblico sempre più vasto le leggi nascoste
del gioco. "Ci siamo resi conto – spiega Canova – che c'è un enorme
bisogno di informazione su questi temi". Oggi i due studiosi ricevono in
media due o tre inviti ogni settimana da enti di ogni genere e
arricchiscono con un contributo originale la riflessione sul gioco
patologico.
Non solo: dal 2011 hanno intrapreso un prezioso lavoro nelle scuole superiori.
La loro proposta, inserita nella lista del Ce.se.di (il Centro Servizi
Didattici) della provincia di Torino, è al primo posto per numero di
richieste. Merito anche di un approccio giovane e antiretorico. "Dire a
un adolescente 'non devi fare qualcosa' è il modo migliore per indurlo a
farla. A quell'età i ragazzi vogliono andare contro il mondo, sfidare
tutto e tutti. Quindi più che lanciare un messaggio allarmista sul
gioco, cerchiamo di far riflettere partendo dalla realtà. Proponiamo
anche alcune simulazioni: ogni studente fa una giocata e poi insieme
commentiamo i risultati. Alla fine qualcuno ci dice: 'Ma allora c'è un
solo modo per vincere: aprire un casinò'". Cioè mettersi dall'altra
parte, stare con chi organizza il gioco e non con chi lo pratica.
Conclusione paradossale, ma matematicamente fondata.
In questi anni Canova e Rizzuto hanno incontrato anche alcuni
giocatori patologici. "Il nostro apporto – conclude Canova – non serve
nel momento della crisi acuta, ma può tornare utile durante il periodo
della riabilitazione, come strumento per valutare illusioni ed
errori di prospettiva. Al termine dei nostri incontri, i giocatori
provano rabbia, si sentono traditi, presi in giro da un sistema che li
ha spinti nel baratro. E ci fanno una domanda ricorrente: 'Perché non
siete venuti prima?'".