L’uomo e la montagna. Un uomo malato, nei suoi ultimi giorni di vita, che vuole essere condotto per l’ultima volta davanti alla montagna tanto amata, ma anche temuta, sognata, conquistata, perduta e riconquistata. Forse mai capita del tutto. E davanti ad essa, ora, scorre tutta la vita e il suo senso ultimo. E’ l’ultima confessione davanti ad un “sacerdote” amico. E un congedo meritato, al tempo stesso dovuto.
Questo è L’uomo che guardava la montagna (Edizioni San Paolo) di Massimo Calvi, giornalista di Avvenire, appassionato camminatore, al suo primo lavoro narrativo. L’autore si cimenta nel tentativo, tante volte affrontato in letteratura, ma non sempre riuscito, di dare senso all’amato paesaggio montano, alle rocce e ai tramonti, ai boschi e alle acque; di farle parlare per lui e per noi. Non ancora un romanzo, ma più di un diario di viaggio.
E’ il racconto, diviso in dodici giornate-capitoli, con un tredicesimo finale, di un viaggio dentro di sé, l’ultimo, il definitivo, guidato, come fosse un sentiero alpino, da simboliche indicazioni d’altavia, che permettono all’autore, e adesso al lettore, se lo vuole, di salire alla cima (morte-risurrezione; fine-inizio), ripercorrendo i tornanti dell’esistenza, dall’amicizia all’amore, ai figli, i desideri, la fede, gli incontri, il pensiero dei nostri limiti e dell’aldilà, come i passaggi in cengia, le scorciatoie o le soste in baita durante un’ascesa. Ma più che un “trekking esistenziale”, si tratta di intimi quadri montani tratteggiati velocemente che si trasformano in paesaggi dell’anima. Episodi di vita in altura, a volte banali, a volte straordinari, che al tramonto della vita assumono significati decisivi e svelano misteri eterni.
Calvi, un libro sulla montagna, ma, in realtà, sull’esistenza umana. L’occasione per scriverlo è stata il lungo lockdown causato dalla pandemia. Giusto?
“Sì, il libro nasce dal senso di stress e frustrazione della clausura forzata. Nasce da un’assenza, una lontananza dai luoghi amati. Purtroppo non frequento la montagna come vorrei, costretto come sono dagli impegni della vita quotidiana, dalla professione. Il lockdown mi ha fatto riflettere più che sulla montagna in sè, sulla spiritualità dei luoghi”.
Cioè?
“Ho capito, nell’estrema reclusione, che tutti noi abbiamo un luogo fisico, ma non solo, che ci appartiene, che ci risolve, che parla di noi. Ho scoperto che avevo bisogno di andare almeno con la mente in quei boschi, quei sentieri, per stare meglio. Immagino che molti abbiano provato la stessa sensazione, e sentito la stessa necessità”.
Scrittura come terapia, dunque?
“Certamente. Ricomporre il passato, scrivendo, lenisce, cura le sofferenze dell’anima, l’insopportabilità di una situazione innaturale. Questo, infatti, è anche un libro sulla cura, sul rimedio per la ferita del limite”.
Qual è questa montagna? Qual è la tua montagna?
“E’ quella, ovviamente, legata alla mia infanzia: il monte Menna, nelle Prealpi Orobie in Val Brembana. Quella che riesco nei giorni di particolare limpidezza a intravvedere all’orizzonte perfino dalla mia abitazione milanese. Era il nostro mondo di bambini, il posto che attendevo di rivedere ogni anno. Non sono uno scalatore, un rocciatore d’alta quota. La mia montagna è fatta di sentieri più bassi, ma che sono i miei”.
Chi si nasconde dietro alla figura del protagonista, questo malato terminale che si fa portare davanti alla sua montagna per guardarla negli occhi?
“Non è volutamente meglio precisato. Forse sono io, ma è chiunque abbia desiderio di mettersi davanti al percorso della sua vita, capendo che può rimettersi a “camminare”, avendo fatto pace con se stesso”.
Per andare dove?
“Le mete possono essere diverse: può essere il varcare la morte, può essere la stessa risurrezione; ma può essere anche, solo, l’uscita dall’infanzia, per scoprire quel luogo frequentato da fanciullo, adesso, con gli occhi di adulto, con riconoscenza e amore. Ognuno può leggerci sentieri e traguardi diversi”.
Quindi il tuo è tutt’altro che un libro di montagna, autobiografico, con la descrizione magari dell’impresa di un “ottomila”…
“E’ così. Ci sono molti episodi biografici, ambientati in montagna, ovviamente, ma subito trasfigurati in universali. La montagna è il mio luogo privilegiato, come per altri potrebbe essere un fiume, una spiaggia, una città”.
L’importante, scrive l’autore, è rimettersi per via. “Hai guardato per anni questa massa imponente di roccia, erba, piante e silenzio. Volevi la cima, ce la puoi fare”.