Morte e vita, duello senza fine. All'ospedale San Raffaele di Milano è ricoverata una giovane donna che un'emorragia cerebrale fulminante ha stroncato. Il suo cervello è spento, l'elettroencefalogramma è piatto. E' "morta" - anche se il suo cuore ancora precariamente batte e nei polmoni circola l'aria insufflata dai macchinari di sostentamento. Non è in coma, non è in stato vegetativo, è cerebralmente morta; la sua condizione di morte cerebrale totale è quella che secondo la legge consentirebbe di per sè l'espianto di organi "da cadavere". Una condizione che la scienza attesta come irreversibile, e che la legge sui trapianti adotta, anche se sui problemi filosofici ed etici dei confini della morte, secondo le definizioni accolte, le riflessioni e i dibattiti non sono mai spenti.
Morta, dunque. Ma ha in grembo un bambino, vivo. Un germoglio che vive la sua vita dentro la madre che lo accoglie e alimenta, in quella miracolosa stagione di vita che E. Fromm, nel famoso saggio L'arte di amare chiamò la felicità dell'unione simbiotica. Il flusso della vita donante che nutre la vita donata; e se cessa è la morte, fin che il bimbo dipende totalmente dalla vita materna; e se la madre non gli da più alimento di vita, muore anche lui. Così accadeva un tempo, così sarebbe ancora accaduto, se ore non ci fossero le macchine che mantengono il respiro e il circolo, il sostentamento vitale di un corpo già visitato dalla morte.
La morte è ora messa quasi in stand-bay; bisogna salvare la vita del bambino, prima che essa vinca le macchine e distrugga anche le funzioni circolatorie e ventilatorie. Basterebbero quattro o cinque settimane ancora, per dargli chance di farcela, di uscire alla luce, e vivere, e cogliere appieno il dono della madre. Dentro la cornice della dipendenza biologica dal corpo materno prende figura la percezione dell'autonomia ontologica del figlio e della sua vita, che è qualcosa di più e di diverso da una "portio viscerum", e che dall'artificio medico che trattiene in quelle viscere la scintilla residua di una vita cessata trova l'alimento del suo personale destino.
Vivrà, ce la farà, lo speriamo tutti, lo attendiamo. Lei, la madre morta, non potrà abbracciarlo, ma gli avrà dato tutto quello che aveva, anche oltre il diaframma della morte anagrafica. Anzi, anche l'anagrafe, che dovrebbe registrare la morte dopo le ore rituali di elettroencefalogramma piatto, stavolta dovrà anch'essa aspettare, fino al giorno in cui, estratto alla luce il figlio, il corpo che lo ha custodito in dono sarà arreso. Solo allora la legge dirà morta la madre, e sarà il figlio ad averla in questo modo tenuta viva. In questa vicenda, infatti, l'artificio della scienza asseconda il prodigio che fa della vita un'alleanza d'amore