Avrebbe potuto essere l'ennesimo caso di suicidio nel 2013 in un carcere italiano. I morti non sono cifre, ma i numeri parlano chiaro: dallo scorso luglio, in Italia ogni settimana si è tolto la vita un detenuto. Anche questa volta, nel carcere romano di Rebibbia, un uomo ha cercato di impiccarsi alle sbarre, ma è stato salvato dal suo compagno di cella.
Nonostante fosse su una sedia a rotelle, l'uomo si è gettato a terra e ha sorretto il compagno fino all'arrivo dei soccorsi. Una morte sventata, un edificante momento di solidarietà tra detenuti, una serie decisamente meno edificante di domande sollevate da questa storia.
Oltre all'evidente condizione di depressione fisica e mentale in cui versano un gran numero di carcerati, la serie senza fine di suicidi in cella denota la costante carenza di personale e di guardie carcerarie deputate alla sorveglianza dei detenuti. Inoltre: com'è possibile che un detenuto disabile stia in cella con uno normodotato?
La denuncia del garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, sulla condizione sanitaria e logistica del Reparto G11 di Rebibbia, ha messo in luce che il piano terra del reparto è utilizzato come centro clinico, pur non avendo requisiti strutturali a norma e in assenza di personale medico e paramedico adeguato. Ne consegue che, molto spesso, i detenuti disabili sono costretti a trascorrere tutta la giornata in cella, privi di quell'assistenza degna di un Paese civile.
"Lascia riflettere", ha scritto Marroni, "la circostanza che a salvare questa persona sia stato un altro detenuto costretto a vivere su una sedia a rotelle. Un caso, purtroppo, non isolato all'interno del G11. Questa volta, tuttavia, la solidarietà e la fratellanza che si instaurano tra reclusi sono state più forti delle avversità".