«Questa lunga indagine non è il frutto di teoremi fantasiosi di pubblici ministeri che vogliono ricostruire – come pure ci hanno accusato – la storia d’Italia. È un’indagine fondata su dichiarazioni di testi, di testimoni di giustizia, su sentenze passate anche in giudicato, su documenti acquisiti anche di recente. Che provano un dato: in un certo momento storico, in particolare quando Cosa nostra si rese conto, nel 1991, che non sarebbe uscita indenne come sperava dal maxi processo di Palermo, decise di eliminare tutti quei politici che avevano tradito le loro aspettative. Il primo fu l’on. Salvo Lima, altri dovevano essere assassinati in seguito. Allora alcuni uomini dello Stato, su imput politico, cercarono di contattare i vertici dell’organizzazione mafiosa per indurli ad abbandonare quel programma».
E così cominciò la Trattativa. Su iniziativa della politica, dice la Procura di Palermo, non di Cosa nostra, né dei Carabinieri. A parlare è Antonino Di Matteo, magistrato dell’Antimafia di Palermo, titolare insieme ai colleghi del pool sia dell’inchiesta sulla “Trattativa Stato-mafia” (condotta insieme a Francesco Del Bene, Lia Sava e Roberto Tartaglia), sia del processo a carico dei due ufficiali dei Carabinieri Mori e Obinu per aver favorito la latitanza del boss Bernardo Provenzano, allo scopo di rafforzarne la leadership all'interno di Cosa nostra a danno della fazione di Riina.
Per quest’ultima indagine è già da tempo in corso il processo. Verso la metà di marzo si passerà alle requisitorie finali delle parti e alla sentenza. L’inchiesta sulla Trattativa, invece, andrà al vaglio del Giudice per le indagini preliminari giovedì 7 marzo, che dovrà decidere il rinvio a giudizio degli 11 indagati: i mafiosi Leoluca Bagarella, suo cognato Totò Riina, il pentito Giovanni Brusca e Antonino Cinà; tre politici: l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino (accusato solo di falsa testimonianza); tre ufficiali dell’Arma: i generali Mario Mori e Antonio Subranni e l’ex colonnello Giuseppe De Donno. Infine, Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo, Vito, accusato anche di concorso in associazione mafiosa e calunnia aggravata (È stata stralciata la posizione del dodicesimo indagato, il boss Bernardo Provenzano, per le sue condizioni psichiche che gli impedirebbero di seguire le udienze).
– Dottor Di Matteo, in base agli elementi acquisiti dalla Procura, cosa avvenne?
«Su mandato dell’on. Mannino, gli ufficiali dei Ros utilizzarono la mediazione dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino per creare un contatto con i corleonesi di Riina e Provenzano. Questo, però, provocò un effetto esattamente contrario a quello sperato: rafforzò in Cosa nostra il convincimento che la strategia del terrore era quella che pagava. Se lo Stato si era fatto avanti subito dopo il primo omicidio – quello dell’on Lima – per capire cosa l’organizzazione criminale volesse per interrompere il proprio progetto, allora occorreva rafforzare la strategia del terrore – di questo si convinsero i mafiosi siciliani – e mettere sul piatto della bilancia ulteriori azioni violente, ossia le stragi di Roma, Firenze e Milano. Questo fatto ci fornisce un’ulteriore conferma importante».
– Cioè?
«La strategia del dialogo con le organizzazioni criminali non paga, anzi, legittima e rafforza la stessa organizzazione mafiosa.
In quel frangente storico, provocò due decisioni nel vertice di Cosa
nostra. Oltre all’avvio della fase stragista con gli attentati nel
continente, quella di mutare i bersagli: non più eliminare i politici che avevano tradito, ma le persone che si potevano frapporre al buon andamento della trattativa, e quindi Paolo Borsellino…»
– Non Falcone?
«Quello di Falcone era un omicidio di natura “preventiva”, per
fermarlo rispetto a ciò che stava facendo al Ministero di Giustizia,
dove aveva impresso una decisa svolta nell’azione di politica criminale
del governo nei confronti della criminalità organizzata. Con le bombe, Cosa nostra vuole gettare nel panico l’opinione pubblica per rafforzare il suo peso contrattuale».
– La Procura da Palermo viene accusata del fatto che questa sia solo una ricostruzione dei magistrati senza prove.
«Lo dice chi non conosce un solo foglio dell’indagine. Mi permetto di ricordare che ci sono già sentenze definitive, come quella della Corte d’Assise di Firenze, che parlano di una vera e propria trattativa; ci sono sentenze che dicono che non è stata cercata e avviata da uomini di Cosa nostra ma da uomini dello Stato.
Ci sono perfino documenti ufficiali che lo attestano: uno fra tutti la
nota del direttore del Dap (Dipartimento di amministrazione
penitenziaria) al Ministro della Giustizia del giugno del 1993 che,
auspicando la mancata proroga di oltre 300 regimi “41 bis”, ossia di
carcere duro, nei confronti di altrettanti mafiosi, segnala l’opportunità di quello che viene definito “un segnale di distensione” nei confronti delle organizzazioni criminali».
– Voi magistrati vi siete lamentati ripetutamente del fatto che il mondo politico non ha aiutato l’accertamento della verità.
«Devo fare una constatazione molto amara, per chi come me crede nelle istituzioni, e cioè che la reticenza e l’omertà di esponenti politici e delle istituzioni è risultata evidente in più passaggi.
Ci sono stati uomini delle istituzioni che hanno reso sugli stessi
fatti dichiarazioni fra loro assolutamente contrastanti. Ad esempio, i
tre ministri Mancino, Scotti e Martelli hanno fornito versioni assolutamente differenti e incompatibili
rispetto ad alcune vicende a cavallo tra giugno e luglio 1992, subito
prima dell’attentato a Paolo Borsellino. O ancora gli on. Violante e Martelli, come pure la dottoressa Ferraro e altri, che “ricordano” fatti molto importanti solo a distanza di 18 anni, e soltanto dopo che Massimo Ciancimino, figlio di un mafioso, aveva rivelato alcune circostanze. È grave che questi uomini delle istituzioni abbiano parlato tanto tardivamente,
quando erano stati chiamati, più volte, a testimoniare davanti ai
magistrati e alle Corti d’Assise di Caltanissetta dove si svolgevano i
processi per le stragi di Capaci e via d’Amelio, e mai avevano riferito ciò che ammetteranno dopo le dichiarazioni di Massimo Ciancimino».
– continua –
– Perché?
«Siamo convinti che alcuni fatti, nella mente di molti, devono rimanere ancora nascosti, e che vi sono verità scomode, troppo scabrose per essere rese pubbliche».
– Il presidente della Commissione Antimafia, nel riferire all’organismo parlamentare della trattiva Stato-mafia, ha descritto un quadro per cui l’iniziativa di cercare un dialogo con Cosa nostra sarebbe da attribuire agli ufficiali dei Carabinieri.
«Riteniamo di poter provare che l’imput è partito dai politici, in particolare dall’allora ministro Mannino, che hanno interessato i vertici dei Ros per trovare una “soluzione”, e cioè per contattare la cupola siciliana e capire cosa volesse in cambio della cessazione della strategia già programmata di eliminare una serie di esponenti politici».
– Perché Cosa nostra ne aveva deciso l’eliminazione?
«Perché, secondo i mafiosi, non avevano mantenuto i patti, cioè li consideravano traditori».
– Guardando ai politici di cui chiedete il rinvio a giudizio, fanno capo a schieramenti diversi. Sembra che non un partito, ma il sistema politico intero sia andato a trattare con la mafia.
«Noi cerchiamo, e cercheremo ancora, di individuare eventuali responsabilità penali, che sono naturalmente personali. Qualsiasi generalizzazione sarebbe grave e ingiusta. Però c’è un dato che va sottolineato. Secondo le nostre ricostruzioni, quello sciagurato – anche negli esiti – tentativo di dialogo con la mafia, riguardò trasversalmente uomini di schieramenti diversi, e probabilmente anche per questo motivo questa indagine ha una peculiarità unica: è stata oggetto di una critica (legittima, ma alcune volte non fondata sulla conoscenza di atti e fatti) altrettanto trasversale. È stata astiosamente e violentemente attaccata da destra, dal centro e da sinistra. Una riflessione: se così è, chi ha fatto l’indagine una volta tanto non può essere accusato di voler favorire una parte politica piuttosto che un’altra.
– La questione della trattativa, però, non riguarda soltanto l’indagine che sta per andare davanti al Gip.
«No. In realtà, è oggetto anche del processo in corso a carico dei due alti ufficiali del Ros, Mario Mori e Mauro Obinu, poi transitati nel servizio segreto civile. Il reato contestato è di favoreggiamento aggravato: riguarda la copertura della latitanza di Provenzano, ed è legata alla trattativa perché riteniamo che questi ufficiali non abbiano favorito il capomafia perché corrotti, ricattati o intimiditi, ma in adempimento a un segmento del patto raggiunto a seguito della trattativa, che prevedeva da un lato la cessazione della strategia stragista, e dall’altro la promessa di un abbandono della legislazione e dell’impegno antimafia massicio nei confronti di Cosa nostra. Di questo patto, per la mafia, era garante proprio Bernardo Provenzano, considerato rispetto alla strategia violenta di Riina la parte dialogante e “buonista” di Cosa nostra. Riguardo alla richiesta di rinvio a giudizio su cui deciderà domani il giudice, il senatore Mancino deve rispondere di falsa testimonianza, gli altri sono accusati a vario titolo di concorso in violenza o minaccia a corpo politico dello Stato».
– C’è una recentissima novità: la lettera anonima di 12 pagine con il simbolo della Repubblica italiana sul frontespizio recapitata proprio a lei il 18 settembre scorso, che darebbe una versione diversa a tutta la questione della mancata perquisizione della casa di Riina. È così?
«Di questo non posso parlare, perché si sta indagando ed è coperta da segreto istruttorio. Posso solo dire che non si tratta di una lettera ma di un dossier che ripercorre molte vicende importanti e misteriose degli ultimi 20 anni a Palermo. Sembrerebbe, per le modalità di stesura e per i contenuti, attribuibile a uomini degli apparati di sicurezza o delle forze dell’ordine. Ne stiamo cercando di verificare il contenuto e gli autori».
– La procura di Palermo si è trovata opposta al Presidente della Repubblica per il “conflitto di attribuzione” sollevato dallo stesso Napolitano davanti alla Corte Costituzionale rispetto alle telefonate nelle quali, intercettando Mancino, era stato registrato anche il Capo dello Stato. La Corte ha dato ragione al Presidente. Un commento?
«Da titolare dell’indagine rispetto la decisione, ed eseguo quanto ci viene chiesto, cioè di consegnare al Gip le registrazioni per la loro distruzione. Mi preme sottolineare che la stessa Corte ha riconosciuto la legittimità e la correttezza degli atti della Procura di Palermo, che ha casualmente registrato le conversazioni del Capo dello Stato intercettando un soggetto nei cui confronti venivano fatti degli accertamenti. Ma da semplice e umile giurista, da magistrato e da cittadino non posso non dire che la decisione della Corte mi preoccupa e mi disorienta».
– Perché?
«La motivazione della sentenza comincia così: “Al fine di decidere il conflitto di attribuzione non è sufficiente un’interpretazione testuale di disposizioni costituzionali e ordinarie”. In altre parole i giudici non individuano alcuna norma che avremmo violato o male interpretato, e per giungere all’accoglimento del ricorso del Capo dello Stato ha spostato l’asse della decisione dalle norme a una ricostruzione sistematica del complesso delle prerogative del Presidente della Repubblica che lo collocherebbero al di fuori dei tradizionali poteri dello Stato – così dice la Corte – e garantirebbero quindi una protezione assoluta, anche rispetto alle telefonate casualmente intercettate. Qual è la perplessità, che peraltro nessuno ha il coraggio di denunciare pubblicamente? Quando si dice che la protezione è assoluta e che l’intercettazione non può nemmeno essere valutata dal Pm, si esclude che la difesa di un imputato eventualmente interessata possa venire a conoscenza della conversazione. Il rischio è di compromettere due principi costituzionali – questi sì esplicitamente affermati dalla Carta – e cioè l’obbligatorietà dell’azione penale e ancor più la pienezza e l’inviolabilità del diritto di difesa. Facciamo un’ipotesi estrema: quella conversazione, anche in futuro, potrebbe riguardare un soggetto che parlando col futuro Capo dello Stato fornisce, ad esempio, una prova dell’innocenza di qualcuno sottoposto a processo. Questa sentenza della Corte impedisce a quell’imputato di poter conoscere e a utilizzare quella telefonata, che magari potrebbe scagionarlo. Oppure quella conversazione potrebbe essere prova di un reato commesso da chi sta parlando col Presidente della Repubblica, o di un terzo a cui si fa riferimento. In tutti i casi la conversazione andrà distrutta senza poterla nemmeno valutare».
– continua –
– Cosa chiedeva invece la Procura di Palermo?
«Il fatto che quelle intercettazioni dovessero essere distrutte non era in discussione. Ritenevamo, però, che dovesse avvenire secondo la procedura prevista dal codice per le conversazioni irrilevanti. Anche per via dei precedenti: sia durante il settennato del Presidente Scalfaro che con lo stesso Presidente Napolitano, in distinte occasioni, era accaduto che conversazioni dei due Presidenti finissero casualmente intercettate. In entrambi i casi, a differenza del nostro, quelle telefonate erano state trascritte dalla polizia giudiziaria, depositate, a messe disposizione delle parti. Quindi finite in fascicoli processuali e perfino pubblicate da alcuni organi di stampa, senza che fossero stati sollevati conflitti di attribuzioni nei confronti delle Procure, che erano quelle di Milano e Firenze».
– Nel vostro caso non si è arrivati nemmeno alla trascrizione?
«No. E non è uscito un solo rigo di “fuga di notizie”. Di questo siamo fieri».
– Questa inchiesta sulla “Trattativa Stato-mafia” è figlia di una precedente, denominata “Sistemi criminali”. In quell’indagine si parlava un piano eversivo-stragista messo in atto, fra il 1991 e il 1994, da un’alleanza di soggetti diversi, dove Cosa nostra non appariva nemmeno come l’ideatrice del progetto, architettato piuttosto da pezzi deviati dello Stato in complicità con frange della destra estrema e dalla massoneria. Ora, in relazione agli stessi fatti, si focalizza sulla sola responsabilità della mafia siciliana. Come mai?
«L’indagine Sistemi Criminali è confluita quasi per intero in questa. Dei 150 faldoni che la costituiscono, molti faldoni sono quelli della vecchia indagine Sistemi criminali. Abbiamo ritenuto, tuttavia, che lo stadio attuale raggiunto dalle investigazioni consenta di portare a processo i 12 indagati che abbiamo indicato, per i quali chiediamo il rinvio a giudizio».
– È la prima volta in Italia che andrebbero alla sbarra, nello stesso procedimento mafiosi, uomini delle istituzioni ed esponenti politici.
«Penso sia la dimostrazione che certe fasi della storia del potere criminale in Italia sono più complesse di quanto si pensi, e che Cosa nostra abbia spesso agito in sinergia con esponenti delle istituzioni o di organizzazioni criminali di tipo diverso, come quelle massoniche. Il disegno complessivo dei fatti, che comprende anche quanto scoperto in Sistemi Criminali, ricostruisce tutto quello che si è mosso in Italia di quel periodo: si ruppe un equilibrio politico-mafioso fondato su un rapporto privilegiato con l’ala andreottiana della Democrazia cristiana. Cosa nostra considerò la sentenza definitiva di condanna del maxi processo, del gennaio 1992, la frattura finale di un rapporto con la politica che era già in crisi fin dal 1987, quando la mafia volle dare un forte segnale votando in massa il Psi. Il periodo 1991-94 è quello in cui la storia delle stragi s’intreccia con la volontà spasmodica di Cosa nostra di trovare nuovi equilibri politici. Finisce un ciclo, e l’omicidio Lima ne è la riprova plateale. E si lavora per la ricostruzione di un altro».
– In quale momento si arriva a quel nuovo “rapporto di coesistenza” con la politica che la mafia cerca?
«Riteniamo che la conclusione di questo periodo così convulso, agli occhi dei mafiosi, sia stata rappresentata dalle garanzie che avrebbe fornito la discesa in campo dell’on. Berlusconi e il consolidamento del suo governo. Tant’è che le stragi terminano, improvvisamente, dopo l’ultimo attentato, casualmente fallito e non più ripetuto, allo stadio Olimpico del gennaio 1994. Secondo molti collaboratori di giustizia, l’appoggio incondizionato dato per quelle elezioni dalla mafia siciliana, e non solo siciliana, al nascente movimento di Forza Italia era dovuto alla promessa che il nuovo assetto politico, nel giro di qualche anno, avrebbe ridotto i poteri della magistratura, limitato l’importanza delle dichiarazioni dei pentiti, reso in qualche modo meno incalzante e incisiva l’azione delle istituzioni nei confronti del fenomeno criminale».
– Secondo lei, tutto ciò si è verificato?
«Io posso cercare solo responsabilità di tipo penale e personale. Le ho fornito una ricostruzione basata sul dato di fatto della cessazione delle stragi nel gennaio ‘94, e su quello che collaboratori di giustizia di livello apicale nell’organizzazione criminale hanno raccontato. Quanto al patto, va ricordato che Luigi Ilardo, capomafia di Caltanissetta, tra il 1994 e il 1995 faceva il confidente dei Carabinieri del Ros, e del colonnello Riccio in particolare. Ilardo, allora, era in stretto contatto con Provenzano e, praticamente in diretta, descriveva ai Carabinieri che ne gestivano le confidenze quello che stava avvenendo, le reciproche promesse, le garanzie tra Cosa nostra e il movimento di Forza Italia. Luigi Ilardo, però, venne ucciso il 10 maggio 1996, tre giorni prima di iniziare a collaborare ufficialmente e a rendere interrogatori ai magistrati».