«Perché mi chiudono a chiave la sera quando torno a casa?». Marco (il nome è di fantasia) l'ha chiesto a una volontaria che si occupa di lui e dei suoi amici che vivono in carcere assieme alle madri detenute. Un'altra volontaria, che aveva ospitato una bambina a casa, si è sentita invece dire: «Che bella cella che hai», riferita alla sua stanza da letto.
C'è voluta l'interruzione del servizio di trasporto, che da Rebibbia porta i piccoli negli asili esterni, per riportare alla luce la realtà dei bambini in carcere. Ma, grazie all'intervento di Caritas Roma, che ha messo a disposizione un mezzo e il personale, e a una sottoscrizione lanciata da “A Roma Insieme - Leda Colombini onlus” (associazione fondata dall'omonima parlamentare del Pci che ha dedicato la vita alla causa “dell'infanzia detenuta”), l'allarme per il momento è rientrato e i piccoli sono potuti tornare a scuola.
Le foto sono di Imma Lasalvia.
«Nel 1994, con una battaglia di civiltà non facile, superando resistenze interne ed esterne, riuscimmo a ottenere che i bambini frequentassero l'asilo all'esterno. Da allora, tutti i giorni, dalle 8.30 alle 16, stanno assieme ai loro compagni “liberi”», racconta Gioia Passarelli, presidente di “A Roma Insieme”. Ma il loro diritto a vedere il sole, correre sui prati, rotolarsi sulla neve, giocare con un cane, guardare le nuvole, ancora non possono esercitarlo appieno. «La legge 354 del 1975 dell'Ordinamento penitenziario», continua la Passarelli, «prevede che le mamme detenute tengano con sé i bambini che hanno da zero a tre anni. Trascorrono la giornata nel nido ricavato in una sezione apposita, con pareti colorate e disegni appesi ovunque, ma che resta sempre parte di una prigione, e la sera rientrano in cella a dormire con la mamma. Dopo i tre anni, è previsto l'affido a famiglie. A quel punto si pone il problema del trauma da distacco, anche se lavoriamo affinché non sia uno strappo, ma un passaggio graduale; per questo, spesso i bambini vengono affidati alle stesse volontarie che li hanno accuditi in carcere e che quindi sono figure familiari».
Tre anni significa più di 1.000 giorni di vita, di fatto, dietro le sbarre. Secondo i dati del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, fino al 31 dicembre 2016, negli istituti penitenziari italiani vivevano 37 bambini.
«Abbiamo lavorato e lavoriamo per dare più momenti possibili di normalità a questi bimbi in un'età così importante per la loro crescita fisica ed emotiva», dice la presidente. «Loro ignorano la realtà esterna, o ne hanno una visione distorta, infatti la prima volta che escono, hanno paura delle auto, dei rumori... Al sabato li portiamo fuori per un'intera giornata; li abbiamo chiamati “Sabati di libertà”. Li portiamo a conoscere le istituzioni, nei centri anziani a incontrare i nonni, al mare, in campagna, ovunque si possano creare momenti di gioco e di scoperta. Cerchiamo di far fare loro tutte le esperienze possibili, così difendiamo il loro diritto a conoscere il mondo».
I volontari dell'associazione svolgono anche attività in carcere – laboratori di arte e musicoterapia – coinvolgendo mamme e figli: al momento i piccoli sono 13, ma negli anni ne sono passati centinaia.
«E poi festeggiamo tutto: compleanni, Natale, Epifania...». Un ulteriore sguardo è rivolto ai figli più grandi, che vivono fuori, ma possono visitare le madri in carcere la seconda e la quarta domenica e l'ultimo sabato di ogni mese per l'intera mattinata. «Cerchiamo di favorire il rapporto madre-figlio, aiutando entrambi a trascorrere al meglio il tempo assieme».
Il sogno di Leda era che nessun bambino varcasse più la soglia di un carcere e questo rimane l'obiettivo principale di “A Roma Insieme”. Questo sogno si è concretizzato con la “Casa di Leda”, la prima casa-famiglia protetta (come previsto dalla legge 62 del 21 aprile 2011), alternativa al carcere, realizzata grazie al finanziamento della Fondazione Poste Insieme onlus. Si tratta di un edificio confiscato alla mafia nel quartiere romano dell'Eur; andranno a viverci sei mamme con i figli. «Se un bambino ha bisogno del dottore, la mamma detenuta non lo può accompagnare, perché non può uscire. A chi vive in casa-famiglia invece è permesso, così come accompagnare i figli a scuola o giocare insieme in giardino. Niente sbarre, niente lucchetti. Le condizioni sono quelle dell'arresto domiciliare, pertanto è per chi ha commesso reati meno gravi, poi tocca al magistrato decidere a chi concedere questa opportunità sulla base del percorso che ogni donna sta facendo», conclude Passarelli.
In Italia, annualmente, 100mila bambini hanno un genitore recluso; nei Paesi del Consiglio d'Europa sono oltre due milioni.
Nel marzo 2014, il nostro Paese, ha approvato – primo in Europa – una Carta dei diritti dei bambini che hanno genitori in carcere: essa riconosce formalmente il diritto di questi minorenni alla continuità del proprio legame affettivo con il genitore detenuto e, al contempo, ribadisce il diritto alla genitorialità dei detenuti. L'Intergruppo del Parlamento Europeo per i diritti dell'infanzia ha deciso di proporre formalmente che la Carta italiana sia adottata da tutti i Paesi dell'Unione Europea.
Nel frattempo, l'associazione “BambiniSenzaSbarre onlus” che, insieme al ministro della Giustizia Andrea Orlando e alla Garante dell'Infanzia Filomena Albano, ha sottoscritto a settembre 2016 il rinnovo per altri due anni del protocollo d'intesa “Carta dei figli di genitori detenuti», è stata chiamata a presentare il documento nella sede permanente dell'Onu a Ginevra.