Il 7 ottobre 2023, all’alba, le sirene risuonarono su Israele. In pochi minuti, la normalità di una mattina di sabato si trasformò in un incubo. Migliaia di razzi furono lanciati dalla Striscia di Gaza, mentre centinaia di terroristi di Hamas penetravano oltre il confine, seminando morte nei kibbutz e nei villaggi di confine. Fu un’azione coordinata, studiata nei minimi dettagli. Ma anche, e soprattutto, un’azione di ferocia inumana. A Kfar Aza, Be’eri, Netiv HaAsara, uomini e donne vennero uccisi nelle loro case. Bambini bruciati vivi, anziani giustiziati, giovani falciati a colpi di mitra. Nel deserto, durante un rave musicale di giovani, centinaia di ragazzi in fuga furono massacrati senza pietà.Quel giorno morirono circa 1.200 persone, di cui più di 850 civili. Altre 250 furono rapite e portate a Gaza, dove molte restano ancora prigioniere. Amnesty International e altre organizzazioni per i diritti umani hanno documentato torture, stupri, violenze sessuali. Un orrore che ha superato ogni limite della guerra.
Un pogrom nel cuore del XXI secolo
La parola “pogrom” non è usata a cuor leggero. Evoca la violenza cieca, la persecuzione di un popolo, l’odio etnico e religioso. Eppure, per molti israeliani e per gran parte del mondo ebraico, non esiste definizione più adatta a descrivere ciò che accadde quel giorno. Un pogrom contro civili inermi, nel cuore del XXI secolo. Una ferita profonda che ha risvegliato la memoria di altre persecuzioni e l’eco di un antisemitismo mai sopito. «Non fu solo un attacco terroristico», ha detto il presidente israeliano Isaac Herzog, «fu un tentativo di cancellare la nostra umanità». In occasione del primo anniversario, lo Yad Vashem di Gerusalemme ha accolto una cerimonia alla presenza di rappresentanti religiosi, diplomatici e del Vaticano. Lì, davanti ai nomi delle vittime, si è rinnovato il dolore di un popolo ma anche la richiesta, condivisa da molti, di non lasciare che la memoria venga travolta dall’indifferenza.
Il dovere del ricordo
Ricordare non è solo una questione politica o diplomatica. È una questione morale. Ogni nome, ogni volto, ogni famiglia distrutta è un monito. Il 7 ottobre ha mostrato fin dove può arrivare l’odio quando si spoglia l’altro della sua dignità. Odio che ha scatenato altro odio. La risposta di Israele è stata feroce e sproporzionata, come ebbe a dire papa Francesco, devastando quasi totalmente la Striscia di Gaza, creando più di un milione di sfollati e uccidendo decine di migliaia di vittime innocenti, tra cui almeno 15 mila bambini. Oggi, mentre la guerra continua e il bilancio delle vittime si allunga e appare la luce di una tregua in mezzo alle tenebre, resta una verità che nessuno può oscurare: nessuna causa giustifica lo sterminio di civili. Nessuna ideologia può legittimare la violenza cieca. La pace non nasce dalle armi, ma dal riconoscimento reciproco. E questo, nel Medio Oriente di oggi, sembra ancora un traguardo lontano.