Il furore, il potere, la religione. Anche Steven Spielberg era rimasto affascinato dalla storia di Edgardo Mortara. Nel 1858 il bambino aveva sei anni, e viveva a Bologna in una famiglia ebrea. La Gendarmeria dello Stato Pontificio bussa una notte alla porta: dice che è stato battezzato all’insaputa dei genitori. Il piccolo viene portato a Roma, e cresciuto come cattolico. Spielberg alla fine si è allontanato dal progetto, e a portare la vicenda sullo schermo è il regista Marco Bellocchio. Il titolo è Rapito, ed è in concorso al Festival di Cannes. Continua il ragionamento di Bellocchio sul potere, sull’incedere della Storia. Come in Esterno notte, i toni caricaturali (presenti specialmente nel personaggio di Pio IX) si mescolano a una disperata ricerca della verità. Ma Rapito è anche una riflessione sulla colpa, è la condanna di ogni fondamentalismo, di ogni aberrazione ideologica. Il ritorno è ai toni dolorosi di L’ora di religione, ma questa volta con un film in costume, potente nell’intreccio e tragico nel suo svolgersi.
A un certo punto, Edgardo leva i chiodi dal crocifisso. Cristo scende, si toglie la corona di spine, lo guarda e si allontana. L’arroganza degli uomini crea una frattura con la preghiera. Rapito è un grande film, girato con maestria, rispetto, evitando inutili esaltazioni. L’obiettivo non è dare scandalo, ma ragionare su come è cambiato il nostro Paese, tema sempre molto caro a Bellocchio, fin da I pugni in tasca. Il suo ultimo film non è quindi un punto di arrivo, ma un nuovo prezioso tassello. La Chiesa come monarchia, la volontà di liberare, di nobilitare l’animo che si trasforma in violenza. Restano la preghiera, una fede tumultuosa, che Edgardo allo stesso tempo ama e respinge. Senza dimenticare un personaggio distrutto, la figura di una madre sempre sull’orlo del precipizio. E quella di un padre che combatte contro un sistema troppo più grande di lui. È l’epopea di un mondo che affoga, mentre fuori i colpi di cannone si mescolano alle lacrime.