Sperare di combattere la fame nel mondo senza affrontare al tempo stesso il nodo della lotta alla povertà economica e al depauperamento delle risorse naturali rischia di essere una fatica di Sisifo. O, per dirlo più prosaicamente, uno spreco di risorse e di tempo. Un approccio complessivo che vede ormai concordi economisti, analisti politici, esperti di cambiamenti climatici e rappresentanti del mondo agricolo.
Tanti spunti di riflessione sono arrivati in tal senso dall'XI Forum dell'Informazione per la Custodia del Creato, organizzato ieri e oggi a L'Aquila dall'associazione Greenaccord in collaborazione con il Comune e la Regione Abruzzo. Un appuntamento che ha chiamato a raccolta decine di giornalisti della stampa cattolica, per un tema reso ancor più di attualità dalla recente promulgazione dell'Enciclica “Laudato si'” da parte di Papa Francesco.
Jacob Skoet (Le foto sono di Emanuele Caposciutti).
Sul fronte malnutrizione, ad esempio, è la stessa Fao a sottolineare il fatto che la fame non si sconfigge producendo più cibo ma aumentando il reddito delle popolazioni più povere. «Le politiche davvero efficaci a sostegno di chi ha fame sono quelle che incentivano la crescita economica inclusiva, soprattutto verso i più deboli», spiega Jakob Skoet, economista della Divisione dell'economia per lo sviluppo sociale della Fao.
La dimostrazione arriva dai risultati conseguiti dai Paesi che hanno introdotto sistemi di protezione sociale: «Chi ha intrapreso questa strada ha ottenuto risultati significativi». Purtroppo tali scelte sono state adottate a macchia di leopardo. E infatti, spiega l'Onu, i risultati globali sulla fame sono comunque a luci e ombre. «Da un lato», prosegue Skoet, «si può vantare una riduzione di 216 milioni di affamati nell'ultimo quarto di secolo (167 milioni solo nell'ultimo decennio)».
Sono 795 milioni secondo i dati 2014, 780 dei quali nei Paesi in via di sviluppo e uno su due è residente in Asia orientale e meridionale. «L'obiettivo del Vertice mondiale dell'Alimentazione di dimezzare la popolazione malnutrita è stato ampiamente mancato. Sarebbe stata necessaria una riduzione di 476 milioni».
Franco Ferroni.
Per centrare l'obiettivo, è importante allargare lo sguardo per includere, nelle risposte che si danno, i fattori ambientali. Il modello agricolo che si sceglie infatti non è ininfluente. Il tipo di agricoltura intensiva, basata su pochi gruppi industriali ha dimostrato di non funzionare. Troppi i suoi lati negativi.
«Quel modello, fortemente antropizzato, garantisce il massimo della produttività nel breve periodo ma si è dimostrato fallimentare nel medio-lungo termine», spiega Franco Ferroni, responsabile Agricoltura di Wwf Italia. «L'inversione di rotta è possibile ma passa dalle scelte politiche prese a livello locale, nazionale e mondiale. I governi possono decidere se continuare a sostenere quel modello o uno diverso, basato su agricoltura familiare, biologica o biodinamica, che si è dimostrato un approccio amico della biodiversità e dei servizi che offrono alle popolazioni locali».
Anselme Bakudila.
In quest'ottica di valorizzazione, a chiudere il cerchio di un ripensamento delle filiere agricole, sarebbe molto utile riuscire a costruire sistemi agricoli territorialmente circoscritti. Quelli che, con una semplificazione giornalistica, forse eccessiva ma efficace, sono ormai noti come “sistemi a chilometri zero”.
«Queste filiere», spiega Anselme Bakudila, del Centro Studi di Slow Food, «sono localizzabili geograficamente, offrono maggiori garanzie di freschezza e genuinità dei prodotti, che sono scambiabili senza intermediazioni, assicurano una maggiore remunerazione ai produttori e permettono una costruzione di un nuovo rapporto con i consumatori». Un punto, quest'ultimo, molto caro all'organizzazione fondata da Carlo Petrini. Un nuovo rapporto tra chi produce e chi consuma è essenziale per cambiare mentalità e capire, insieme, l'importanza della cura comune delle risorse naturali.
«Le filiere corte fanno incontrare i due attori fondamentali della filiera», prosegue Bakudila, «stimolando la costruzione di un giusto prezzo, che assicuri cibo di qualità a chi mangia e giusto prezzo a chi produce». E, intanto, ringrazia anche l'ambiente perché un simile sistema evita lo spopolamento delle zone rurali e offre un'alternativa valida alla dilagante cementificazione e ai danni in termini di dissesto idrogeologico che essa porta con sé. Basta un dato per capire quanto ne abbia bisogno anche il nostro Paese: ogni anno, dal 1990, l'Italia ha perso 100 mila ettari di suolo agricolo, più del doppio della Germania e due volte più che in Francia.