Per capire certe cose ci vuole
tempo, anche per capire fino in
fondo la morte di un prete come
don Giuseppe Diana, il parroco
di Casal di Principe ammazzato
il 19 marzo 1994. Quel
giorno, il giorno del suo onomastico,
il sicario entrò in chiesa
alle 7.30 del mattino dirigendosi in sacrestia.
«Chi è don Diana?», chiese. Il giovane
prete rispose semplicemente: «Sono
io». Il killer estrasse la pistola e lo colpì al
volto con cinque colpi, poi se ne andò con
calma, come se fosse stato lì per chiedere
un certificato di Battesimo. Il sacerdote
cadde in una pozza di sangue, nel corridoio
dove oggi c’è una sorta di altare con
la sua foto, in ricordo del suo martirio.
Ci sono voluti vent’anni per comprendere
fino in fondo il “martirio” di don
Peppe. Anche perché, come spesso succede
per le vittime innocenti di mafia, quel prete fu ucciso una seconda e
una terza volta, come spiega il fratello
Emilio: «Scrissero di lui che era un camorrista
affiliato, che si era trattato di
un delitto passionale. Dissero persino
che teneva nascoste in sacrestia le armi
dei clan. Oggi, per fortuna, la verità di
quel sangue innocente è stata accertata.
Casa mia e quella di mia sorella Marisa
continuano a essere meta della visita
di tanta gente che testimonia la sua
vicinanza, a cominciare dai ragazzi
scout, di cui Peppe era assistente spirituale.
Continuiamo a ricevere lettere,
messaggi. Ma c’è voluto molto, troppo
tempo per arrivare alla verità».
LA SUA FIGURA AUTENTICA.
Ma non è stata
soltanto la calunnia dei clan a impedire
che si cogliesse il vero significato
di quella morte. «Negli ultimi anni
probabilmente la figura di don Diana
è stata esaltata molto più come eroe
anticamorra che non come sacerdote
che per seguire fino in fondo la parola
di Dio ha perso la vita in odium fidei.
Anche noi sacerdoti e parrocchiani ci
siamo detti: teniamo viva la sua memoria,
continuiamo la sua opera. È come
se non avessimo avuto tempo di
cogliere la profondità di quel che è accaduto
», spiega don Franco Picone, 47
anni, il successore di don Diana. «Ora
si sta facendo un grosso lavoro per ricostruire
la sua figura spirituale, una
figura molto profonda celata sotto il
suo carattere gioviale, esuberante, coraggioso,
diretto».
«È vero, ci abbiamo messo vent’anni,
anche noi che lo conoscevamo bene
», aggiunge Clelia Bove, coautrice
del libro per adolescenti dedicato a don
Peppe (Amo il mio popolo e non tacerò, Di
Girolamo editore), che verrà distribuito
in tutte le scuole d’Italia, insieme a un
altro libricino per i più piccoli (anch’esso
destinato a tutte le biblioteche delle
elementari del Paese). Due pubblicazioni
che fanno emergere la forza evangelica
celata sotto la superficie di uomo
gioviale, esuberante, coraggioso, con
tutta l’energia dei suoi 36 anni.
Don Peppe si fa notare fin dal suo
arrivo nella parrocchia di San Nicola
di Bari. Il suo primo atto è quello di
mandar via tutti quelli che vogliono
gestire le feste patronali per altri fini.
La domenica pomeriggio, quando il
Napoli giocava in casa, stipa la sua
golf bianca di ragazzi di strada e se li
porta al San Paolo, schiamazzando e
suonando il clacson al ritorno quando
la squadra di cui era accanito tifoso Luigi ha interpretato la parte di
una delle tante vittime innocenti della
guerra dei clan casalesi nel docufilm
Memoria e rinascita. «Si chiamava
Antonio Di Bona. Aveva avuto il torto
di portare il trattore da riparare
nell’officina il giorno sbagliato, quello
in cui un commando della camorra fece
un blitz per uccidere il meccanico,
affiliato a uno dei clan». Don Diana,
come tutti i casalesi onesti, era esasperato
da quelle morti continue.
Durante
le omelie si scagliava contro tutti
quelli che venivano in chiesa per poi
vivere il resto della settimana ai margini
della legalità. Mise alla porta un
aspirante padrino che non si era cresimato.
Dal pulpito si rivolgeva alle madri
e alle mogli di boss e affiliati: «Andate
dai vostri uomini, dai vostri figli,
e dite loro di smetterla con tutta questa
corruzione, con tutta questa violenza
». Una cosa inaudita.
LO STATO COME UN PENDOLO.
«Lo Stato
qui ha agito come un pendolo», spiega
Marisa Diana, cugina del sacerdote e
coautrice del libro dedicato alla sua figura.
«Ha mostrato i muscoli attraverso
una presenza massiccia delle forze
dell’ordine, allentando la presa a momenti
alterni. Oggi possiamo dire che il
Comune è cambiato, che la presenza
dello Stato è davvero capillare e diffusa,
rassicurante». Ma negli anni ’90 Casal
di Principe vanta il più alto numero di
omicidi d’Europa. La morte di Antonio
Bardellino, il potente boss che trafficava
coca e caffè, sparito in Sudamerica,
aveva innescato una guerra totale. Ci
si ammazza per strada, basta incrociare
l’affiliato di un clan avversario. «Se la camorra
ha assassinato il nostro Paese»,
scrive don Diana sul periodico Lo Spettro,
«noi dobbiamo farlo risorgere, bisogna
risalire sui tetti e riannunciare parole
di vita». È in questi frangenti che nasce
il documento Per amore del mio popolo,
scritto da don Diana in collaborazione
con tutti i parroci della foranìa di Casal
di Principe con la partecipazione del
vescovo di Caserta Raffaele Nogaro. Un
atto d’accusa durissimo, distribuito in
tutte le chiese, che definisce i clan «un
flagello devastatore».
Oggi è certo che don Diana, dopo
dieci anni di menzogne e calunnie, è stato
ucciso per il suo ruolo di aperta contestazione
al potere della camorra. «La
scelta di uccidere don Giuseppe Diana»,
recita la sentenza della Cassazione, «ebbe
soprattutto una forte carica simbolica,
come segnale che avrebbe dovuto
essere dirompente e risolutorio», nella
contrapposizione tra il gruppo De Falco-
Quadrano e i Casalesi del boss Francesco
“Sandokan” Schiavone.
«L’importante», conclude don
Franco, «è cercare di comprendere
sempre più come in quegli anni sanguinosi
l’atteggiamento di don Peppe
sia stato un atteggiamento profetico.
Tutto faceva parte di un’evoluzione
spirituale. Questo ce lo ha spiegato anche
monsignor Bertolone, postulatore
della causa di beatificazione di padre
Pino Puglisi».
Dietro quell’uomo, dietro quella
forza della natura, insomma, c’era la
missione di un santo.