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giovedì 23 gennaio 2025
 
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Quel martirio, vent’anni dopo il delitto

19/03/2014  L'opera e la figura di don Giuseppe Diana, il sacerdote di Casal di Principe ucciso il giorno del suo onomastico dalla camorra. I tentativi di depistare il movente.

Per capire certe cose ci vuole tempo, anche per capire fino in fondo la morte di un prete come don Giuseppe Diana, il parroco di Casal di Principe ammazzato il 19 marzo 1994. Quel giorno, il giorno del suo onomastico, il sicario entrò in chiesa alle 7.30 del mattino dirigendosi in sacrestia. «Chi è don Diana?», chiese. Il giovane prete rispose semplicemente: «Sono io». Il killer estrasse la pistola e lo colpì al volto con cinque colpi, poi se ne andò con calma, come se fosse stato lì per chiedere un certificato di Battesimo. Il sacerdote cadde in una pozza di sangue, nel corridoio dove oggi c’è una sorta di altare con la sua foto, in ricordo del suo martirio. Ci sono voluti vent’anni per comprendere fino in fondo il “martirio” di don Peppe. Anche perché, come spesso succede per le vittime innocenti di mafia, quel prete fu ucciso una seconda e una terza volta, come spiega il fratello Emilio: «Scrissero di lui che era un camorrista affiliato, che si era trattato di un delitto passionale. Dissero persino che teneva nascoste in sacrestia le armi dei clan. Oggi, per fortuna, la verità di quel sangue innocente è stata accertata. Casa mia e quella di mia sorella Marisa continuano a essere meta della visita di tanta gente che testimonia la sua vicinanza, a cominciare dai ragazzi scout, di cui Peppe era assistente spirituale. Continuiamo a ricevere lettere, messaggi. Ma c’è voluto molto, troppo tempo per arrivare alla verità».

LA SUA FIGURA AUTENTICA.


Ma non è stata soltanto la calunnia dei clan a impedire che si cogliesse il vero significato di quella morte. «Negli ultimi anni probabilmente la figura di don Diana è stata esaltata molto più come eroe anticamorra che non come sacerdote che per seguire fino in fondo la parola di Dio ha perso la vita in odium fidei. Anche noi sacerdoti e parrocchiani ci siamo detti: teniamo viva la sua memoria, continuiamo la sua opera. È come se non avessimo avuto tempo di cogliere la profondità di quel che è accaduto », spiega don Franco Picone, 47 anni, il successore di don Diana. «Ora si sta facendo un grosso lavoro per ricostruire la sua figura spirituale, una figura molto profonda celata sotto il suo carattere gioviale, esuberante, coraggioso, diretto».

«È vero, ci abbiamo messo vent’anni, anche noi che lo conoscevamo bene », aggiunge Clelia Bove, coautrice del libro per adolescenti dedicato a don Peppe (Amo il mio popolo e non tacerò, Di Girolamo editore), che verrà distribuito in tutte le scuole d’Italia, insieme a un altro libricino per i più piccoli (anch’esso destinato a tutte le biblioteche delle elementari del Paese). Due pubblicazioni che fanno emergere la forza evangelica celata sotto la superficie di uomo gioviale, esuberante, coraggioso, con tutta l’energia dei suoi 36 anni. Don Peppe si fa notare fin dal suo arrivo nella parrocchia di San Nicola di Bari. Il suo primo atto è quello di mandar via tutti quelli che vogliono gestire le feste patronali per altri fini.

La domenica pomeriggio, quando il Napoli giocava in casa, stipa la sua golf bianca di ragazzi di strada e se li porta al San Paolo, schiamazzando e suonando il clacson al ritorno quando la squadra di cui era accanito tifoso Luigi ha interpretato la parte di una delle tante vittime innocenti della guerra dei clan casalesi nel docufilm Memoria e rinascita. «Si chiamava Antonio Di Bona. Aveva avuto il torto di portare il trattore da riparare nell’officina il giorno sbagliato, quello in cui un commando della camorra fece un blitz per uccidere il meccanico, affiliato a uno dei clan». Don Diana, come tutti i casalesi onesti, era esasperato da quelle morti continue.

Durante le omelie si scagliava contro tutti quelli che venivano in chiesa per poi vivere il resto della settimana ai margini della legalità. Mise alla porta un aspirante padrino che non si era cresimato. Dal pulpito si rivolgeva alle madri e alle mogli di boss e affiliati: «Andate dai vostri uomini, dai vostri figli, e dite loro di smetterla con tutta questa corruzione, con tutta questa violenza ». Una cosa inaudita.

LO STATO COME UN PENDOLO.

  

«Lo Stato qui ha agito come un pendolo», spiega Marisa Diana, cugina del sacerdote e coautrice del libro dedicato alla sua figura. «Ha mostrato i muscoli attraverso una presenza massiccia delle forze dell’ordine, allentando la presa a momenti alterni. Oggi possiamo dire che il Comune è cambiato, che la presenza dello Stato è davvero capillare e diffusa, rassicurante». Ma negli anni ’90 Casal di Principe vanta il più alto numero di omicidi d’Europa. La morte di Antonio Bardellino, il potente boss che trafficava coca e caffè, sparito in Sudamerica, aveva innescato una guerra totale. Ci si ammazza per strada, basta incrociare l’affiliato di un clan avversario. «Se la camorra ha assassinato il nostro Paese», scrive don Diana sul periodico Lo Spettro, «noi dobbiamo farlo risorgere, bisogna risalire sui tetti e riannunciare parole di vita». È in questi frangenti che nasce il documento Per amore del mio popolo, scritto da don Diana in collaborazione con tutti i parroci della foranìa di Casal di Principe con la partecipazione del vescovo di Caserta Raffaele Nogaro. Un atto d’accusa durissimo, distribuito in tutte le chiese, che definisce i clan «un flagello devastatore». Oggi è certo che don Diana, dopo dieci anni di menzogne e calunnie, è stato ucciso per il suo ruolo di aperta contestazione al potere della camorra. «La scelta di uccidere don Giuseppe Diana», recita la sentenza della Cassazione, «ebbe soprattutto una forte carica simbolica, come segnale che avrebbe dovuto essere dirompente e risolutorio», nella contrapposizione tra il gruppo De Falco- Quadrano e i Casalesi del boss Francesco “Sandokan” Schiavone. «L’importante», conclude don Franco, «è cercare di comprendere sempre più come in quegli anni sanguinosi l’atteggiamento di don Peppe sia stato un atteggiamento profetico. Tutto faceva parte di un’evoluzione spirituale. Questo ce lo ha spiegato anche monsignor Bertolone, postulatore della causa di beatificazione di padre Pino Puglisi». Dietro quell’uomo, dietro quella forza della natura, insomma, c’era la missione di un santo.

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