Ecco il romanzo che i leghisti dovrebbero leggere: Semina il vento (Piemme), di Alessandro Perissinotto. Il libro si divide di fatto in due parti, distinte. La prima descrive l'incontro e l'innamoramento fra Giacomo Musso e la fascinosa Shirin. Lui è un giovane italiano che lavora a un museo di Parigi, dove si occupa di divulgazione scientifica per l'infanzia. Lei è una ragazza di origini iraniane, ma nata e cresciuta nella capitale francese, dove erano emigrati i genitori in fuga dalla rivoluzione islamica. La seconda racconta il trasferimento della coppia a Molini, sulle montagne piemontesi, paese d'origine di lui, e la lenta, ma inesorabile distruzione del loro amore, a causa dell'odio, dell'ottusità, della grettezza della gente locale.
Tanto è magico, sereno, persino tenero il racconto della relazione d'amore fra i due giovani, quanto è tragica, spietata e crudele la seconda. La coppia decide di lasciare la grande città per il paesino per il desiderio di trovare una "casa", nel senso più ampio del termine, ovvero un luogo che li accolga, che li faccia sentire in un ambiente familiare. E' quasi più Shirin a contribuire alla decisione, forse perché attratta dal desiderio di vivere finalmente in un luogo che possa - attraverso il marito - sentire suo, che le consenta di avere finalmente delle radici: vive in Francia, ha una cultura e una formazione occidentali, ma le sue origini sono tutte in Iran, un Paese di cui sa poco o nulla.
Il modo in cui Perissinotto spinge la sua lama nell'ambiente del piccolo paese piemontese è efficace e duro. L'inserimento di Shirin sembra dapprima funzionare a meraviglia, e i due possono vivere una vera e propia luna di miele. La ragazza diventa addirittura voce solista nel coro locale, che vanta un repertorio legato alla tradizione, interpretato con costumi altrettanto tradizionali. Giacomo diventa il maestro di paese, pagato dai concittadini che vogliono mantenere viva una scuola locale. Ma è solo un momento di sereno prima della tempesta. Per ironia della sorte, è proprio dal coro che arrivano i primi problemi: un sindaco leghista di un paese in cui dovrebbe esibirsi, non vuole che sia Shirin, pur sempre una straniera, a interpretare quella parte da solista: che c'entra un'immigrata con la tradizione locale?
Tralasciamo i passaggi successivi, storia di un'incomprensione radicale prima fra la gente del luogo e la nuova coppia, poi fra gli stessi marito e moglie. Diciamo solo che Perissinotto è molto abile nel restituire le sfumature e le contraddizioni di questa terribile degenerazione. Merita invece una considerazione l'analisi del concetto di tradizione, vera chiave della vicenda e del libro. A ben guardare, tutti i personaggi in scena sono attratti da questa parola, e hanno bisogno di ciò che rappresenta: la casa, la famiglia, un paesaggio in cui riconoscersi, una lingua e costumi da amare, vicini a cui fare affidamento...
Giacomo torna al paese perché è convinto che la tradizione serva da fondamento, sul quale costruire un edificio in grado di aprire finestre sull'esterno, sull'altro, e mettersi in dialogo con lui, in un'ottica di tollerenza e di scambio. E' quello che cerca di insegnare ai suoi alunni. Senza patria, Shirin cerca un ambiente che la accolga e che possa sentire suo: per lei, è un luogo d'elezione, cioè scelto consapevolmente, e la sua partecipazione entusiasta al coro ne testimonia lo spirito. Ma c'è anche chi intende in maniera diversa, e drammaticamente distorta, la tradizione: come qualcosa da mantenere puro preservandolo dal contatto con gli altri, con le altre tradizioni, come se potessero sporcarla o distruggerla. Altra parola chiave è identità: per i cittadini di questi paesi piemontesi e i loro amministratori, da costruire nel rifiuto del diverso, sempre e comunque corrotto e corruttore. Dove porti questa politica, questa visione del mondo, lo mostra bene il romanzo di Perissinotto.