Un cucciolo d’uomo è un essere fragile e indifeso. E’ totalmente dipendente dalla capacità degli adulti che lo hanno messo al mondo di amarlo. Di nutrirlo. Non solo di cibo. Ma anche di cura e di amore. Chi lavora con i più piccoli sa che non sempre gli adulti sono capaci di offrire amore e cure a chi è piccolo. Succede che a volte gli danno cibo. Ma non amore. Così lui sopravvive. Ma vive male. A volte la situazione è ancora più complessa. Perché mentre l’adulto nutre e fa sopravvivere il suo cucciolo, al tempo stesso può anche usargli violenza, maltrattarlo, trascurarlo. Così si entra nel territorio dell’abuso all’infanzia. Ovvero di quei gesti che vengono fatti su un bambino, sul suo corpo, sul suo cuore, sulla sua anima e che lasciano un segno per tutta la vita. Ci sono abusi che sono invisibili. Gli abusi verbali, la trascuratezza emotiva non lasciano tracce sul corpo del bambino che li subisce. Ma il suo cuore ne resta segnato in modo indelebile. Ci sono abusi che invece vengono scritti sul corpo del bambino. E’ un linguaggio terribile a base di lividi, segnature, bruciature. Macchie che a volte rimangono nascoste sotto gli indumenti. I bimbi piccoli non sanno raccontare con le parole ciò che vivono nelle famiglie che non sanno amarli e curarli. Spesso lo fanno con i gesti. Che noi psicologi chiamiamo “agiti”, ovvero modalità concrete per raccontare attraverso azioni ciò che non siamo capaci di raccontare con le parole. Un bambino abusato, violentato, picchiato, maltrattato non racconta con le parole ciò che vive. Ma lo racconta con tutto se stesso. Il modo in cui ti guarda (o al contrario non ti guarda mai). Il suo corpo che non smette mai di cercarti (o al contrario non ti si avvicina mai, tenendo una distanza di sicurezza che non può essere mai valicata da nessuno). Il suo riprodurre nei giochi gesti violenti che ha subito impotente e che può scaricare con una finta potenza bambina su un pupazzo oppure su un bambolotto. Tutto questo sfugge magari ai più.
Gli adulti oggi non sono molto abituati a vedere i bambini, a osservarli con calma e attenzione. A scrutarli negli occhi per comprendere cosa c’è nel loro sguardo. Siamo travolti dalla fretta, pieni di cose da fare, persi in schermi che non si spengono mai e quindi succede che della sofferenza dei bambini la maggior parte degli adulti comuni non si renda conto.
Ma gli insegnanti no. Loro sono immersi per ore tutti i giorni nell’infanzia. Loro la guardano, la osservano, la scrutano. La conoscono meglio di qualsiasi altra cosa ci sia nelle loro vite. Loro dei bambini vedono tutto, sentono tutto, intuiscono tutto. Per questo, la sofferenza del bambino di Cardito ucciso a botte dal patrigno perché piangeva troppo, loro l’avevano intercettata da tempo. Sapevano che quel bambino, in quella casa e con quegli adulti al proprio fianco non era al sicuro. Temevano per lui, per la sua incolumità. Eppure lo hanno lasciato lì. In quella casa e in quella famiglia che poi è diventata la sua tomba. Sapevano ma non hanno detto. Temevano, ma non hanno agito.
E’ lo sguardo di cui parla anche Gesù nel Vangelo. Lo sguardo di chi vede il samaritano sofferente, ma che, dopo aver visto, prosegue per la sua strada. Perché c’è altro da fare. Perché “sporcarsi” le mani con la sofferenza degli altri implica fatica, disturbo, tempo da investire in racconti, denunce, confronti con genitori che magari ti minacciano. E così tutti restano soli. I bambini con la loro vulnerabilità. I genitori violenti con la loro incapacità di farsi cura dei bisogni di sopravvivenza e di amore dei loro cuccioli. Gli insegnanti con i loro sospetti che oggi peseranno sul loro cuore come un macigno. Perché il silenzio di chi sa e non dice è un silenzio spaventoso, corresponsabile, quasi colpevole quanto la mano che si è stretta intorno al collo del piccolo e l’ha strangolato.
I bambini abusati quasi mai parlano. Il loro silenzio serve a proteggere l’adulto che li maltratta e che li violenta. Perché anche se quell’adulto è il peggior adulto che ci può essere nella loro vita, loro se lo tengono a fianco. Cercano in tutti i modi di permettergli di essere ciò che è.
Gli adulti che si confrontano con il silenzio di un bambino abusato e lo riconoscono come tale, invece devono parlare. Anzi devono urlare. Devono dare voce al dolore di un minore che non può parlare. O che pur potendolo fare, non riesce a farlo. Stare in silenzio, significa divenire complice di chi picchia, violenta, abusa, a volte addirittura fino a provocarne la morte. Il silenzio della comunità del frosinate che sapeva ma non ha detto e non ha fatto nulla per salvare quel bambino oggi risulta tanto colpevole quanto le mani della madre che ne hanno provocato la morte.
In tempi in cui si auspicano le telecamere a scuola per fermare la violenza degli educatori, in cui si parla di famiglia in modo spesso ideologico, quello che scopriamo in questa tristissima vicenda è che i bambini sono sempre più fragili perché noi adulti siamo sempre più fragili. E sempre meno adulti.