C’è una frase di Fabio Fognini, nella conferenza stampa di addio al tennis, che racconta dello sport ad alto livello una verità lapidaria: «Non è semplice, perché ho fatto questo per vent’anni e non so fare altro».
Si sa, lo sport può diventare un lavoro - che lo diventi è l’ambizione di chi lo comincia perché come disse Enzo Ferrari a Enzo Biagi l’uomo vuole vincere -: se si tratta di una classifica sufficientemente alta può anche essere un lavoro molto remunerativo (ma per pochi eletti, per chi non sale abbastanza invece il circuito rischia di essere un costo). Per tutti quelli che riescono a farne un’attività professionale è però notoriamente un lavoro a tempo, con un tempo corto. Tutti lo sanno, ma in genere rimandano il momento di fare i conti con questa consapevolezza: si resta ragazzi finché il proprio orizzonte sono le righe del campo ed è un trauma uscirne, significa crescere di botto. Un po’ come succede in una delle felicissime rappresentazioni sportive dell’umorista argentino Mordillo: oltre le righe del campo c’è il burrone.
La sensazione è che lo sport viva questa consapevolezza come una gigantesca rimozione: si sa che c’è un futuro oltre lo sport da costruire, ma finché c’è un campo in cui giocare, si evita anche solo di affacciarsi sull’orlo dell’abisso scuro che c’è oltre la riga bianca: una pensione anticipata a un’età che per gli altri è il mezzo del cammin di nostra vita, al quale si arriva, senza le esperienze che gli altri hanno avuto il tempo di maturare. E tante volte è una senza o con pochissima pensione: c’è sport e sport, il gruzzolo non sempre basta a campar la vita, e tante volte è davvero per la gloria. Certo si porta nella vita il bagaglio dell’alto livello se c’é stato, della sfida mentale che è lo sport di vertice, ma non è immediato tradurla nella vita reale.
Se si è Roger Federer si può semplicemente restare sé stessi, si rischia un po’ di reducismo, ma ci si può concedere un buen retiro doratissimo da riempire con l’hobby di una fondazione solidale, se invece non si è il primo, ma «solo» il decimo, il ventesimo, il cinquantesimo tocca inventarsi un posto nel mondo: non solo un lavoro, ma un ruolo, un qualcosa che ti dica allo specchio chi sei.
Essere ventesimi, cinquantesimi, centesimi al mondo in qualunque lavoro sarebbe già somma eccellenza, ma a differenza dello sport gli altri lavori si continuano a fare fino all’età della pensione. Lo sport invece un giorno ti chiude il cancelletto che porta al campo e ti dice che tra le righe del campo che ti hanno definito fino a quel momento per te non c’è più posto, che hai davanti, in media, almeno 40 anni dalla riga bianca in là e devi inventarti qualcosa. Per mantenerti, ma anche non vivere una vita da ex qualche cosa.
La sensazione è che gli adulti che crescono giovani sportivi (inseguendo la gloria propria e loro) e lo sport come sistema non preparino ancora abbastanza questo delicato passaggio. Di sicuro non lo ha preparato abbastanza in passato e chi esce adesso spesso lo fa come Fognini con la sensazione di non sapere fare altro. Con i ventenni di oggi sembra che vada meglio, quantomeno si studia di più.
Ma forse bisognerebbe ragionare di più di questo tema del futuro oltre l’agonismo nello sport come sistema. Può darsi che sia funzionale all’alto livello vivere eternamente focalizzati non pensando che all’interno delle righe del campo o, meglio, che sia considerato tale (non è detto che lo sia, se qualcosa poi va storto si va all'aria come persone).
Ma per chi investe tutto di sé nello sport, al momento di domandarsi "E adesso, cosa farò da grande?" quel «non ci ho ancora pensato, ho dei progetti», che vuol dire tutto e niente, e che è la risposta più gettonata tra gli atleti in carriera di ogni disciplina (ricca e povera) rischia di essere un salto nel vuoto troppo grande, che ha umanamente un prezzo sociale (e per alcuni sport anche economico) troppo alto.