La peste di Albert Camus - scrittore e filosofo, premio Nobel nel 1957, celebre anche per Lo straniero - è ambientata negli anni ‘40 a Orano, città dell’Algeria francese, e narra il rapido diffondersi di un’epidemia che sconvolge la vita del paese e dei suoi abitanti, testo che oggi appare quanto mai attuale. Con la creatività che contraddistingue ogni suo lavoro, la regista Serena Sinigaglia, co-direttrice artistica del teatro Carcano di Milano, concentra la vicenda sui cinque personaggi principali del romanzo; sono sempre in scena contemporaneamente e nei dialoghi, nelle riflessioni personali ripropongono la parte narrativa e descrittiva del romanzo, attraverso appunto monologhi o “a parte” in cui spiegano la drammatica situazione e l’evolversi della vicenda, rivolgendosi direttamente al pubblico che, pertanto, si sente ancora di più coinvolto in prima persona.
La Sinigaglia per la riscrittura del testo si è avvalsa di una stretta e proficua collaborazione con il drammaturgo e scrittore Emanuele Aldrovandi, condensando tematiche e azioni per renderle scenicamente più efficaci e per indagare a fondo tra i sentimenti degli uomini, colpiti da tragici eventi inaspettati, ma volendo costruire anche uno spettacolo propositivo che apre uno spiraglio di speranza, inserendo anche alcune battute divertenti per allentare la tensione.
In scena recitano alcuni attori che da anni collaborano con la regista, tra cui Mattia Fabris; egli interpreta il medico Bernard Rieux che assiste impotente al dilagare della malattia, coadiuvato da Jean Tarrou che viene reso nei suoi dubbie e tomenti da Oscar De Summa; infatti Tarrou avrebbe dovuto diventare magistrato come il padre, ma, deluso dal suo atteggiamento severo verso i colpevoli, sceglie d’andarsene da casa a 18 anni e, trovatosi nell’emergenza sanitaria, si impegna in prima linea. Gli altri attori, per decisione della regista, interpretano doppi o tripli ruoli, caratterizzandoli con alcuni semplici e incisivi tratti: Marco Brinzi è l’impiegato comunale con il sogno di pubblicare un’opera letteraria e anche il Prefetto Othon a cui muore il figlioletto e che è il responsabile delle restrizioni imposte; Alvise Camozzi è Cottard, commerciante senza scrupoli che si arricchisce speculando sui generi di prima necessità, il padre gesuita Paneloux, che descrive la peste come una punizione divina per il comportamento degli uomini e un vecchio asmatico che esprime la sua filosofia sulla vita; Matteo Cremon è Raymond Rambert, giornalista che desidera solo ritornare nella sua Francia, ma che decide poi di rimanere per aiutare gli altri e il portinaio del condominio di Rieux, prima vittima riconosciuta della malattia.
Numerose le analogie, sottolineate dalla regista, con la situazione contemporanea della pandemia da Covid 19 che stiamo vivendo: alcuni negano la gravità della situazione, altri si barricano in casa, tutti soffrono per l’isolamento a cui sono costretti, i medici si sacrificano per il bene dei propri pazienti, mentre i contagi si innanzano appena le misure di sicurezza vengono allentate; subentra così la rassegnazione e diviene indispensabile l’uso delle mascherine e dei disinfettanti. Forte è il monito, presente anche nel romanzo: nessuno può salvarsi da solo, senza essere solidale con gli altri e pensando solo al proprio utile personale. Infatti, viene evidenziato più volte come la peggiore epidemia diffusa sia morale, cioè il diffondersi dell’indifferenza e della rabbia scaturita anche dalle costrizioni. Chiaramente emerge come il paese rimanga attonito di fronte al dilagare della malattia e come tutte le forze della medicina si concentrino, oltre che sull’aiuto indefesso verso i malati, sulla speranza di trovare un vaccino salvifico. Infatti, gli attori che interpretano il personale sanitario in azione cambiano mascherine, guanti, camice, come in una catena di montaggio, per sottolineare il loro instancabile lavoro.
In una scena bianca si stagliano le figure dei personaggi in abiti bianchi o camici che si alternano in proscenio quando recitano o quando dialogano con il pubblico per spiegare i fatti salienti. Essi spargono il cemento da sacchi bianchi, sempre presenti sul palcoscenico e parte integrante della scenografia, e che, con un’originale trovata registica, simboleggiano il momento in cui una persona viene sepolta, appunto sotto il cemento, e lascia il pubblico commosso.
Identico rispetto al testo originale rimane il sentimento di sgomento provato in passato come oggi di fronte al dilagare di una malattia che annienta le certezze e cambia le priorità di ognuno.
Fono al 27 marzo al Teatro Carcano di Milano