Il busto del 'baby boss' Emanuele Sibillo, ucciso in un agguato di camorra, portato via dai carabinieri dalla cappella votiva allestita nel palazzo del centro storico dove risiede la famiglia a Napoli (foto Ansa, Ciro Fusco)
Una vecchia e sgangherata sedia, una sorta di altarino dedicato a un baby boss, i giganteschi ritratti dipinti sulle parete dei palazzi. Bah! Cosa volete che siano in confronto dei tanti problemi cui è soggetta una città bella, antica, problematica come Napoli? Niente di più sbagliato. Nei giorni scorsi, a Torre Annunziata, un uomo, Maurizio Cerrato, è stato massacrato da quattro figuri, con un estintore in testa e una pugnalata al cuore, perché Maria Adriana, sua figlia, per parcheggiare, si era permessa di spostare una sedia. Una sedia messa lì da chi si sente il proprietario di uno spazio pubblico. Quella sedia parla un suo linguaggio che da queste parti tutti conoscono. Essa dice che fai bene a tenerti alla larga perché quel suolo pubblico, pubblico più non è. A Napoli, è stato divelto un altarino, contenente addirittura le ceneri di un giovane, Emanuele Sibilio, ucciso a soli 20 anni, nel 2015. Un altarino costruito su suolo pubblico, naturalmente. Per di più nei pressi di una scuola. Un altarino assurto a una sorta di feticcio di cattivo gusto per i compenenti della sua famiglia e davanti al quale costringevano a inginocchiarsi le vittime del racket.
Un’assurdità inaudita. Un’umiliazione insopportabile. Qualcosa da far rivoltare nella tomba chi per amore della libertà e della dignità umana non ha ricusato fatiche, sofferenze e nemmeno la morte. Questi manufatti abusivi sono una sfida aperta allo Stato. Stanno a dire: qui comandiamo noi. Guai a prendere sotto gamba fenomeni di questo tipo; guai a considerarli piccoli soprusi. Sono piccoli si, ma alla stregua del seme che, lasciato in pace nel terreno fertile, in breve si trasforma in albero. Purtroppo non si tratta di casi isolati ma di un maledetto modo di fare. Quella sedia, quell’altarino, quella cancellata stanno a dire: « qui comandiamo noi. Questa è terra nostra». E tu, o ti adegui o te ne devi andare. E non metterti mai in testa di fare la spia, potrebbe costarti caro. Sono lunghe le notti nei quartieri in mano alla camorra. Lunghe e pericolose per te e per i tuoi figli. È difficile, se non impossibile, convivere gomito a gomito, con gente che sembra essere uscita dalle caverne della preistoria. Camorra che non vuol dire solo e per forza affari, droga, estorsioni, giri di denaro da capogiro. Camorra vuol dire innanzitutto disprezzo delle più elementari regole del vivere civile; disprezzo assoluto delle autorità, noncuranza dei diritti altrui. Camorra vuol dire: « Qui comandiamo noi ». E quando più la cosa è fatta alla luce del sole, tanto più il camorrista, l’affiliato, lo scagnozzo, l’amico, l’amico dell’amico, il parente, il parente del parente, si sentono beati, legittimati, realizzati. Come se ruotassero in un delirio di onnipotenza. Da quando tempo quella sedia stava in quel posto? Chi aveva il dovere di toglierla e sorvegliare quel parcheggio? Quanto tempo fa fu costruito quell’altarino? Perché ci son voluti anni per poterlo demolire? A queste domande, antipatiche, nioiosissime, ma doverose e legittime, bisogna pur dare una risposta.
A Caivano, nel quartiere dove sono parroco, qualche mese fa, è stato abbattuto una sorta di pied-à-terre costruito su un marciapiede. Per gettarlo giù ci sono voluti una sessantina tra poliziotti in tenuta antisommossa, vigili del fuoco, vigili urbani, carabinieri. Nel video che, poco dopo, girava sui social, si vedeva gente che sbraitava con la polizia, come se le venisse fatto un torto. Rischiando si scandalizzare il giornalista che, a riguardo, mi chiedeva un parere, risposi amareggiato: « Mah! A modo loro hanno ragione. Quell’obbrobrio sta là da quasi 20 anni…». La camorra è un albero maledetto che affonda le radici maledette in quel terreno maledetto che è la cultura – o, meglio, subcultura - camorristica. Che l’albero, di tanto in tanto, venga potato non estirpa il problema. Occorre bonificare il terreno. Occorre cominciare da quelle sgangherate sedie, da quegli innocui altarino, da quei murales che sembrano non fare male a nessuno e che, invece, estorcono i diritti a chi ne ha diritto. Occorre che la società civile si riprenda il controllo del territorio. Occorre liberare la città da chi non le vuole bene; da chi tiene in ostaggio i giovani, impaurisce gli adulti, affossa la libertà, rapina i diritti. La morte atroce di Maurizio; l’orribile notizia che le vittime delle estorsioni dovevano rendere omaggio alle ceneri del defunto camorrista, bastano a gettare in subbuglio le coscienze. E mettono a tacere, oggi, quelle tante bocche che si aprono a comando accusando i cittadini onesti di omertà. No, non è omertà il silenzio delle persone perbene. È paura. Paura di morire ammazzati con un estintore in testa e una pugnalata al cuore. O di dover scappare via dal quartiere che ti ha visto nascere e nel quale vorresti continuare a vivere.