Probabilmente a Kevin Rebello e alla famiglia Trecarichi le metafore ottimistiche e cariche di speranza di questi giorni non porteranno nessuna consolazione. Nella Concordia faticosamente messa in piedi molti hanno visto il simbolo di un’Italia che forse ce la farà, che magari ce la può fare.
Aver raddrizzato la nave, che fino a qualche giorno sembrava un gigantesco animale morente, per loro può voler dire un’altra cosa però: riabbracciare i corpi senza vita dei loro familiari, piangerne i resti, dargli una sepoltura dignitosa dopo che oltre un anno fa il mare li ha inghiottiti nel suo ventre come fanno i mostri delle favole con i bimbi cattivi.
«All'ombra de' cipressi e dentro l'urne confortate di pianto è forse il sonno della morte men duro?», si chiedeva Foscolo agli albori dell’Ottocento. Sembra retorica intellettualistica, ma Kevin ed Elio Vincenzi probabilmente risponderebbero di sì. Per questo sono arrivati lunedì mattina al Giglio, l’isola maledetta, e hanno atteso pazienti le lunghe e complesse operazioni di recupero del relitto. Non con lo sguardo voyeuristico e curioso di chi in questo vede solo una prova senz’altro grandiosa di abilità ingegneristica ma con la speranza di poter continuare a piangere magari davanti a una tomba, in un cimitero normale, portando un mazzo di fiori, i propri cari partiti per divertirsi o per lavorare e mai più tornati.
Kevin Rebello ha perso il fratello Russel, che sulla nave lavorava come cameriere. Elio Vincenzi è il marito della signora Maria Grazia Trecarichi, che era in crociera con la figlia e un’amica. Nella fredda contabilità del disastro loro sono le due vittime i cui corpi mancano ancora all’appello. «Spero che si trovi qualche traccia di mio fratello», ha detto Kevin, «anche solo per avere un posto dove pregarlo e poter dire: l’attesa e l’angoscia sono terminate». Dopo l’inizio delle operazioni ha sospirato: «Oggi sono più confuso degli altri giorni».
Kevin, subito dopo la tragedia, arrivò sull’Isola per assistere alle ricerche del fratello. I superstiti del naufragio hanno raccontato che Russel si prodigò molto quella notte per salvare molti passeggeri. Ma non se stesso. Come Giuseppe Girolamo, il musicista pugliese che cedette la possibilità di salvarsi ad altri passeggeri, lasciandogli il suo posto su una scialuppa di salvataggio.
Storie di eroismo che si mescolano a quelle dei morti. Come Dayana e Williams Arlotti, padre e figlia morti insieme, perché, si legge nelle carte dell’inchiesta, «non avevano trovato posto sulle scialuppe al ponte 4, lato sinistro». Sono stati «indirizzati da membri dell’equipaggio sul lato destro del medesimo ponte e, mentre stavano attraversando il corridoio all’interno della nave nei pressi dell’atrio ascensori di poppa e del Ristorante Milano, sono caduti nella voragine verificatasi a séguito del definitivo ribaltamento sul fianco destro della nave stessa, precipitando in una zona allagata del medesimo ponte 4» e sono morti «per asfissia da annegamento».
Come Erika Fani Soria Molinala, morta «risucchiata verso il fondale dal gorgo prodotto dal definitivo ribaltamento sul fianco destro della nave», «dopo avere tentato di allontanarsi dalla nave a bordo di una zattera ed essere caduta in mare, senza il giubbotto di salvataggio».
Maria D'Introno era arrivata ad un soffio dalla salvezza, era riuscita a salire su una scialuppa, ma fu costretta a risalire a bordo «perché l'eccessiva inclinazione non consentiva di calare in mare la scialuppa». Le dissero di andare sul lato destro del ponte ma, a causa del «crescente allagamento», fu costretta a lanciarsi in mare ma non sapeva nuotare.