Ci siamo caduti un’altra volta. Solo che in questo caso al posto del “mostro” abbiamo sbattuto in prima pagina l’”animale”, o meglio la bimba-scimmia. La cronaca è semplice: viveva nella foresta con un branco di primati. E’ già stata battezzata “Mowgli”. La notizia viene dall’India, ed è di quelle che fanno il giro del mondo in 80 secondi: una bambina di circa otto anni è stata ritrovata nella foresta della riserva naturale Katarniaghat nell'Uttar Pradesh, stato dell’India settentrionale. Viveva allo stato brado nella giungla, assieme alle scimmie, arrampicata sugli alberi. E’ stata convinta a lasciare la foresta e a farsi ricoverare in un ospedale della zona, dove le stanno insegnando a muoversi in posizione eretta e a capire il linguaggio umano. Di lei non si sa nulla. Non ha un nome, ovviamente. E per questo, data la somiglianza con la storia del protagonista del romanzo di Kipling, è già stata battezzata “Mowgli”.
Non si discute l’interesse del fatto (sempre che sia davvero un fatto reale): senza dubbio, si tratta di una notizia di grande impatto, con tutte le caratteristiche per portarla in prima pagina, a cominciare dall’eccezionalità e da quello che i massmediologi americani definiscono come “human interest”, e cioè quell’interesse che scaturisce da un fatto che ha come protagonista un piccolo essere umano bisognoso di cure e attenzioni.
Fin qui il diritto di cronaca è sacrosanto. Ed è stato esercitato. Ma c’è un altro diritto, che chi fa il giornalista e l’editore dovrebbe conoscere bene, che ha prevalenza perfino sul diritto di cronaca e che si chiama “maggior interesse del bambino”, ovvero il diritto del minore alla riservatezza per tutelarne una serena crescita. Non lo diciamo noi, ma sta scritto su carte deontologiche di cui ci vantiamo magari nei congressi, ma alle quali poi contravveniamo con colpevole disinvoltura. Sta scritto sulla “Carta di Treviso”, vera e propria “bibbia” in materia di trattamento delle informazioni riguardo i minori, sottoscritta dall’Ordine dei giornalisti nel 1990, e recepita in toto dall’ultimo “Testo unico dei doveri del giornalista” (27/1/2016); ma stava già indicato all’art. 7 del “Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica”, e dal Codice della Privacy (decreto legislativo 196/2003).
Insomma: c’era davvero bisogno di pubblicare le foto della bambina “Mowgli”? Era davvero necessario far vedere quel volto in primo piano e poi quei lividi sul corpo e quelle posizioni così poco naturali, anzi, dovremmo, dire, paradossalmente, troppo naturali e così poco… umane? Tanti, troppi media (giornali, agenzie di stampa nazionali e internazionali, siti di news) hanno riportato la notizia corredandola di foto e video che permettono una facile identificazione di quel minore, che è “minore al quadrato” in questo caso, senza origini, né voce. Una inutile foto che potrebbe trasformarsi un giorno in stigma incancellabile per chi vi è ritratta. E, magari un giorno l'ex-bambina potrebbe pensare che il mondo degli umani senza il rispetto delle regole non è poi così dissimile dalla jungla.
E, attenzione, non è giustificazione, nemmeno davanti a un ipotetico giudice civile, invocare il fatto che “anche gli altri hanno pubblicato la stessa immagine”. La responsabilità resta tutta.
Magra consolazione: non è certo la prima volta che, proprio davanti a fatti simili, le cronache si sono gettate a peso morto. A volte anche prendendo per buone delle clamorose “bufale”. Ma questo è ancora un altro discorso.