Milano, 1932, Giardini di Porta Venezia. Un gruppo di ragazzini gioca a calcio, che già allora era lo sport più popolare nel nostro Paese. I giovani avevano in camera la foto di Peppino Meazza, il bomber dell’Ambrosiana Inter, e altri giocatori, che due anni dopo avrebbero regalato all’Italia il primo titolo mondiale, erano come i divi del cinema. Un tiro un po’ più forte finisce accanto alla panchina dove sono sedute alcune amiche. Una di loro, Rosetta, si alza e la rispedisce indietro. Il ragazzino che la riceve la apostrofa così: «Uè, ma tu dovresti giocare a calcio!». Inizia così la storia della prima squadra di calcio femminile italiana, raccontata nel libro Giovinette - Le calciatrici che sfidarono il Duce di Federica Seneghini. Al centro ci sono tre sorelle, Rosetta, Marta e Giovanna Boccalini, anche se quest’ultima, pur essendo brava con il pallone, non potrà far parte della squadra in quanto già madre di due bambini. Ma anche lei darà una mano a costruire il Gruppo femminile calciatrici milanesi. In breve le ragazze, che hanno tra i 16 e i 20 anni, sono sempre di più. Trovano un allenatore, un presidente e iniziano ad allenarsi con regolarità su campi pieni di pietre e fango. Formano due squadre: una con i colori nerazzurri dell’Inter di cui erano tutte tifose e una granata con il logo del Cinzano perché il presidente era un commerciante di vini. Indossano un gonnellino nero appena sopra il ginocchio (in altri Paesi europei dove il calcio femminile è già una realtà consolidata le atlete usano i calzoncini ma loro non se la sentono di osare così tanto), calzettoni alti a coprire il più possibile le gambe e scarpe che si sono fatte fare alla bell’e meglio. I giornali iniziano a interessarsi a quelle ragazze, quasi tutti con scetticismo: va bene il tennis o l’atletica, ma nel calcio c’è il contatto, quindi non è adatto a delle signorine. Ma soprattutto: prendersi una pallonata non può rischiare di compromettere la capacità di fare figli, fondamentale per forgiare l’Italia fascista?
Così viene chiamato in causa un illustre cattedratico, Nicola Pende dell’Università di Genova, che nella primavera del 1933 scrive una lettera in cui sentenzia che «dal lato medico nessun danno può venire né alla linea estetica del corpo, né allo statico degli organi addominali femminili e sessuali in ispecie». Quindi, «giuoco del calcio sì, ma per puro diletto e con moderazione!». Via libera anche dal capo del Coni Leandro Arpinati e così, davanti a circa mille spettatori, l’11 giugno del 1933, nel campo rionale di via Fabio Filzi, davanti a circa mille spettatori si svolge la prima partita di calcio femminile pubblica in Italia. Per la cronaca, finisce 1-0 per il Cinzano, con rete di Mina Bolzoni, come riporta il giornale Calcio Illustrato. Le ragazze sono al settimo cielo, tanto più dopo che persino i campioni dell’Ambrosiana Inter, con Meazza in testa, decidono di assistere a un loro allenamento.
Per l’autunno progettano di organizzare delle trasferte, chissà, magari un vero Campionato. Ma tutto svanisce con il nuovo presidente del Coni, Achille Starace, molto meno aperto in fatto di sport femminile del suo predecessore. Il seguito della storia ce lo racconta l’autrice del libro: «Al regime interessava che le donne si preparassero al meglio nelle discipline ammesse alle Olimpiadi di Berlino del 1936. Il calcio non c’era e quindi Starace inviò alcuni funzionari al campetto dove le ragazze si allenavano per selezionare quelle più brave da indirizzare verso altri sport. Poco dopo arrivò una circolare che vietò il calcio femminile». Fine dell’avventura. «Ma Rosetta passò alla pallacanestro e vinse tre Campionati con l’Ambrosiana, mentre sua sorella Giovanna fu partigiana, tra le fondatrici del giornale Noi donne e, dopo la guerra, consigliera comunale a Milano e vicepresidente dell’Inps». La Federazione italiana calcio femminile nacque solo nel 1968 e se nel 2019 abbiamo applaudito i successi delle azzurre guidate da Milena Bartolini ai Mondiali di Francia, molto resta da fare. Seneghini: «Proprio in quell’occasione ho sentito uomini che, mentre guardavano le partite, commentavano: “Il calcio femminile non è né calcio, né femminile”. Oppure: “Non
giocherei mai contro una donna. Se perdessi, vorrebbe dire che è più forte di me…”».