Perdere senza perdere la bussola. Mica facile quando la partita conta. E infatti capita spesso che, al termine di un'occasione perduta, parta il carosello degli alibi, delle scuse, delle recriminazioni. Si sente di tutto: dalla sudditanza degli arbitri, alle scarpe bagnate (al termine di una gara di salto in alto mondiale s’è sentito anche questo quasi piovesse solo per qualcuno, che però non si chiamava Fantozzi), in mezzo un intero campionario.
Eppure non è retorica dire che un campione, tecnico o atleta che sia, è tale soprattutto se sa (anche) perdere con stile. In questo, si sa, ha fatto scuola Julio Velasco, tecnico della Nazionale di pallavolo più forte di sempre, l’Italia dei primi anni Novanta. Ha tanto insistito su quel fronte che qualcuno è arrivato ad accusarlo di coltivare «La filosofia della sconfitta». Aveva vinto molto, ma aveva conosciuto la sconfitta più difficile sul più bello della partita più importante: al quinto set, in finale olimpica, contro un’Olanda più sulla carta più debole e già battuta in qualificazione.
Quando capitò di riparlarne, la raccontò così: «Ovvio. Una delusione tremenda. D’altronde che si fa con le delusioni? Niente. L’essere umano ha una capacità straordinaria di adattamento. Ho avuto ferite peggiori nella mia vita. Semplicemente uno fa le cicatrici. Io sono orgoglioso di aver diretto una squadra che ha perso un’olimpiade che doveva vincere e nel momento de maggior dolore non ha fatto niente. E' il miglior modo di comportarsi: assimilare il dolore, non fare l’isterico, non dare colpe agli altri, non cominciare a fare l’elenco delle storture che abbiamo avuto, delle quali io non ho mai parlato e delle quali, purtroppo, non ha parlato nessuno. Mi rammarica solo il fatto che in altre circostanze le squadre che non vincono fanno l’elenco dei problemi e tutti i mezzi di informazione ne parlano. Ma non voglio cambiare, io credo che ancora in quello che dicevo allora ai miei giocatori: “abbiamo perso ci criticheranno. Dobbiamo mantenere una dignità nella sconfitta. C’è chi parla di filosofia della sconfitta. No, io non ho la cultura della sconfitta, gioco per vincere, ma accetto di perdere».
Era davvero andata così, chi ha avuto Velasco allenatore ripete come un mantra che fa a tutte le sue squadre “una testa così” per smontarne «gli alibi». Non capita spesso, il più delle volte, Velasco ha ragione, gli alibi finiscono davanti ai microfoni, ma la sportività esiste, si pensi ai Franz Beckenbauer, agli Xavier Zanetti, il guaio è che una loro frase conciliante fa meno notizia di una sparata utile a rinfocolare la polemica.
Se servono altri esempi, sono di poche settimane fa queste parole di Pep Guardiola, alla sconfitta del Bayern contro l’Augsburg: «Non possiamo lamentarci. Abbiamo perso perché gli avversari sono stati migliori di noi. Questo è il calcio, questo è lo sport. Non si può vincere sempre. Una sconfitta è una possibilità, prima o poi».
Quando la posta in gioco è molto alta, è più difficile, ma c’è chi sa dominarsi anche lì. In questo il campione dei campioni è Max Rosolino, uno che ha eguagliato sempre nella sconfitta la classe mostrata con le sue oltre 50 medaglie internazionali in vasca: magari erano i Mondiali e una gara attesa finiva male. Arrivava ai microfoni con l’aria bastonata e un sorriso amaro ma gentile e implorava: «Ragazzi, scusate, sono a terra, datemi cinque minuti, mi riprendo e torno». Ma non scappava, tornava davvero, e riprendeva da dov’era rimasto: «Allora: ho fatto schifo, non ho scuse». Lo diceva con il sorriso, probabilmente gli costava un enorme sforzo. Ma lo faceva.
Come lo faceva a suo modo Vujadin Boskov, volato in cielo pochi giorni fa: nel campionario di battute e di bel calcio che ci ha lasciato ce n’era una passata agli annali in cui rispondeva a chi gli chiedeva chi fossero gli allenatori migliori di lui: «Più bravi di Boskov sono quelli che stanno sopra di lui in classifica». E ancora: «Rigore c’è quando arbitro fischia». Come per dire, tutto il resto è chiacchiera.