L’idea di affidare Mario Balotelli, calciatore del Milan e della Nazionale, alle cure di uno psicologo che gli spieghi, se non l’assurdità assoluta, almeno la dannosità relativa delle sue intemperanze, ora tradotte in squalifica pesante, rischia di venire celebrata come una saggia novità del nostro calcio, che come è noto con i suoi personaggi e le sue vicende fa non solo da specchio, ma anche da faro al paese.
Sulla saggezza siamo d’accordo, nel senso soprattutto che qualsiasi minuto sottratto alle conversazioni abituali medie di un bipede pedatore giovane, ricco e famoso, con il cosiddetto “entourage”, e al suo sodalizio con tifosi che in linea di massima sono fanatici folli, e consegnato invece ad un uomo di scienza, è cosa buona e giusta. Sulla novità abbiamo qualcosa da precisare. Nel senso che viene facile, automatico quasi dire che una volta il calcio, e se si vuole lo sport tutto, non avevano bisogno di psicologi.
Ora, a parte il fatto che di molti allenatori e dirigenti si è detto, da che calcio è calcio, che si trattava, si tratta anche di ottimi utilissimi psicologi, quantunque non iscritti all’albo, è bene sapere e giornalisticamente fare sapere che l’esperimento dello psicologo di club è stato tentato nel passato anche ufficialmente, per esempio, dalla Juventus di Sivori. Di cognome faceva Bonfante lo studioso che dialogava con i giocatori bianconeri per rilassarli e intanto motivarli al meglio, e usava persino strani occhiali speciali, probabilmente per suggestionare i tipi. Restando a Torino, il club granata per lungo tempo affidò inufficialmente allo strizzacervelli il caso di qualche giocatore della prima squadra, se non altro per consulenze. Lo psicologo diciamo laureato dei granata si chiamava Prunelli, lavorava e bene con Vatta nel settore giovanile, e scrisse pure un bel libro sulle sue esperienze.
In tempi più recenti due club nostri importanti, Inter e Lazio, hanno provato,senza successo, a inserire nell’organigramma degli addetti ai lavori, con compiti per la verità vaghi, Velasco, grande allenatore-psicologo di pallavolo Sicuramente ci sono stati altri esperimenti, nascosti o comunque non ufficializzati per timore di derisione in caso di fallimento, visto che lo psicologo, per bravo che sia, non fa i gol e neanche para i rigori.
Sicurissimamente il calcio italiano per tanto tempo ha visto tanti grandi club far lavorare in casa uno psicologo speciale, che si chiamava assistente spirituale, quando non addirittura cappellano, pensando al suo omologo nell’esercito. Un sacerdote, ecco, come adesso pensiamo operi ufficialmente soltanto nel Torino e nella Lazio. Il cappellano era presente in tanta serie A quando i calciatori erano assai meno ricchi, meno divizzati per non dire divinizzati, e andavano insieme a messa, e ascoltavano il prete tifoso acceso ma amico sapiente. Adesso abbiamo ormai, parlando di serie A, maggioranza numerica di stranieri, molti provenienti da paese con religioni diverse dalla nostra, anche se ancora intensissimo risulta il frullare di segni di croce all’ingresso sul terreno di gioco.