Si dice che le storie, una volta affidate alle pagine, appartengano sempre meno a chi le ha scritte e sempre più a chi le legge. Corre voce che non ci sia libro, al netto dei testi sacri, che abbia più “padroni” di Il Piccolo Principe, in classifica da decenni. Chi non l’ha letto ne ha sentite citare le frasi celebri, nell’ipotesi meno favorevole ha visto il bambino biondo e arruffato che parla con le rose e addomestica le volpi stampato su una maglietta. Una capillarità che lo scadere dei diritti un anno fa ha amplificato in una miriade di riedizioni.
Quand’anche quel “secondo solo alla Bibbia” fosse una valutazione a spanne, la dice lunga sulla sfida che hanno raccolto i temerari che ne hanno fatto un film (in sala dal 1° gennaio 2016, per la regia di Mark Osborne, disegno di Peter De Sève, animazione Hidetaka Yosumi e Jason Boose, colonna sonora di Hanse Zimmer, da poco in Cd per Because Music). C’era di che tradire l’immaginario di un pianeta assai più grande di quello del Piccolo Principe: un immaginario ancorato non solo alla fantasia di milioni e milioni di persone, ma anche al disegno naïf dell’autore, che lo illustrò per primo.
LA SFIDA
C’è un atto di coraggio nella scelta di Mark Osborne di incastonare la storia del Piccolo Principe in un’altra storia contemporanea: un modo di prendere dentro i lettori tramite la bambina protagonista, un modo di rispettare meglio il nucleo principale staccandolo dal resto anche nel disegno: se la bambina, la mamma e l’anziano aviatore sono in una computergraca modernissima, stile Era glaciale, l’aviatore giovane, il principino, la volpe e la rosa si animano in una stop motion per quanto possibile rétro, fingono un’anima di cartapesta, ruvida allo sguardo ma morbida nel movimento come plastilina, appartengono a un racconto senza tempo.
L’espediente era certo rischioso, ma rende bene la difficoltà del dialogo adulto-bambino, già nucleo dell’originale, e ulteriormente complicata in una società in cui i bambini hanno giornate da grandi, scandite da mille impegni, un po’ per le esigenze degli adulti che hanno attorno, un po’ in previsione degli adulti che diventeranno.
L’incontro tra la bambina contemporanea dall’infanzia compressa e lo squinternato aviatore invecchiato, ma mai del tutto cresciuto, ripropone in un altro tempo il messaggio del primo dialogo nel deserto: quello del Piccolo Principe che chiede all’aviatore precipitato “disegnami una pecora”, e che si risolve nel disegno di una scatola con tre buchi che lascia la pecora all’immaginazione del principino.
IL RISCHIO
Non a caso il regista ammette, davanti all’Everest dell’offerta di animare il classico entrato nei 10 libri per l’isola deserta di milioni e milioni di ragazzi più o meno cresciuti, la tentazione di girare i tacchi.
«Conoscevo benissimo il libro», dice Mark Osborne. «Ero convinto che non vi fosse modo di trarne un adattamento fedele. Poi ho pensato che il materiale era troppo buono per lasciarsi sfuggire l’occasione della vita: sentivo che solo accettando avrei potuto “proteggere” il libro attraverso il film». L’impressione nostra è che la soluzione convinca.
Ma solo ogni spettatore dentro di sé potrà dire se davvero l’enigma è stato risolto. Se ciascuno vedendo il film ritroverà non la rosa, la volpe, il principe, ma la sua rosa, la sua volpe, il “suo” Piccolo Principe: in definitiva la storia che lo ha addomesticato in un tempo imprecisato del passato e che ne ha fatto un lettore per sempre.