Lo schema è quello tipico di centinaia di film hollywoodiani: un uomo comune che si ritrova protagonista di una storia molto più grande di lui. Cosa rende allora Il ponte delle spie, nelle sale dal 16 dicembre, un film di grande valore? Prima di tutto l’intelligenza del regista Steven Spielberg.
In altre mani, la storia dell’avvocato esperto di assicurazioni Donovan (interpretato in modo magistrale da Tom Hanks), che in piena Guerra fredda prima accetta di difendere la spia sovietica Rudolf Abel (Mark Rylance, attore inglese di estrazione teatrale che rivaleggia in bravura con Hanks) e poi si presta addirittura a fare da negoziatore a Berlino per il suo scambio al posto di un pilota americano catturato dai sovietici, si sarebbe trasformata in un fumettone tutto muscoli e azione, con i buoni rigorosamente da un lato e i cattivi dall’altro.
E invece il regista, lungo tutti i 140 minuti del film, ha scelto una narrazione distesa che, senza annoiare mai, gli ha consentito di approfondire tutte le sfumature che questa vicenda, accaduta realmente, contiene. Come già gli è successo tante volte nella sua carriera, da E.T. a Schindler’s list, Spielberg è partito dalla sua infanzia e in particolare dai ricordi del padre, che lavorava per la General Electric e che con tre colleghi si trovava in Russia dopo la cattura del pilota Gary Powers: «Stavano facendo la fila per vedere i resti dell’aereo spia U2 che i russi avevano messo in mostra», racconta il regista. «La fila era molto lunga, ma a un certo punto due militari si avvicinarono a lui e ai suoi amici, chiedendo loro i documenti; quando si resero conto che erano americani, li portarono all’inizio della fila, non per agevolarli, ma per indicargli i resti dell’aereo e ripetergli più volte con astio: “Guardate cosa sta facendo il vostro Paese!”. Non ho mai dimenticato quella storia».
Powers il 1° maggio del 1960, a bordo del suo aereo, era penetrato in territorio sovietico con il compito di fotografarlo. Ma era stato abbattuto e, per ottenere il suo rilascio, i due Paesi avevano organizzato uno scambio con la spia russa Rudolf Abel, da realizzarsi su un ponte a Berlino. C’è quindi la suspense per l’intrigo, ma che resta sempre in sottofondo rispetto al vero cuore del film: l’amicizia che può nascere tra due uomini che, agli occhi di tutti, non potrebbero essere più diversi. Dice ancora Spielberg: «Il tema di fondo è il modo in cui vediamo noi stessi e come le altre persone vedono noi, ciò che nascondiamo affinché altri possano scoprirlo». Non a caso il film si apre con questa scena: vediamo il volto di Abel, poi la ripresa si allarga e scopriamo che l’uomo sta dipingendo un suo autoritratto. Più avanti, il suo avvocato Donovan, mentre viaggia in metropolitana, dovrà affrontare gli sguardi colmi di disprezzo da parte degli altri passeggeri: è l’avvocato di una spia russa e quindi è un traditore pure lui, mentre in realtà si limita a fare il suo lavoro: assicurare la miglior difesa possibile al suo cliente, chiunque esso sia, anche se Abel non sembra molto interessato alla sua sorte, che tutti scommettono essere la sedia elettrica. Quando Donovan gli chiede «Non ha paura?» lui risponde con un laconico «Servirebbe?».
E arriviamo così a un altro elemento che rende Il ponte delle spie un grande film: gli sceneggiatori sono, oltre al drammaturgo inglese Matt Charman che ha scovato la storia di Donovan tra le note di una biografia di John F. Kennedy, i fratelli Joel ed Ethan Coen. L’umorismo corrosivo che permea i loro film punteggia anche questo e, mettendo alla berlina i burocrati e le spie tanto della Cia quanto del Kgb, fa risaltare ancora di più la grandezza dell’amicizia tra Donovan e Abel.
Anche se Spielberg si guarda bene dal mettere sullo stesso piano i loro due Paesi: «Negli Stati Uniti abbiamo metodi differenti da quelli dell’ex Urss. Donovan parla della Costituzione, che dà a tutti gli stessi diritti di fronte alla legge, e quindi protegge i cittadini stranieri. Sappiamo che come nazione non seguiamo sempre le regole, ma Donovan lo faceva, incarnando i nostri valori fondamentali».
Ed ecco che allora, quando Donovan da un tram osserva i militari di Berlino Est sparare senza pietà verso gli uomini e le donne che tentano di scavalcare il Muro appena costruito, capiamo che il film parla anche dell’oggi, dei muri che fisicamente, ma soprattutto nei nostri cuori, crescono per tentare di separarci gli uni dagli altri.