L’arresto di Mario Chiesa presidente del Pio Albergo Trivulzio a Milano, colto in flagrante il 17 febbraio 1992, con una mazzetta collegata a un appalto per un’impresa di pulizie, segnò l’inizio dell’indagine passata alla storia come Mani pulite. Un blocchetto di ghiaccio che si rivelò la punta di un iceberg di corruzione sistemica contro il quale finì a schiantarsi la cosiddetta Prima Repubblica.
quell’epoca Raffaele Cantone era magistrato da pochi mesi, dopo una lunga attività di pubblico ministero nella Direzione distrettuale antimafia di Napoli e un periodo al massimario della Cassazione. Dal 2014 al 2019 è stato presidente dell’Anac, Autorità nazionale anticorruzione. Oggi è capo della Procura di Perugia, competente per i reati che coinvolgono come vittime o indagati magistrati del distretto di Roma; tra questi casi figura il processo Palamara, in cui l’accusa di corruzione pende su alcuni magistrati. Uno sguardo ampio che si presta a ragionare di passato e presente.
Dottor Cantone, da giovanissimo magistrato, che percezione ebbe?
«Avevo un’esperienza ridotta di vicende giudiziarie, la collaborazione che si vide dal mondo della politica e dell’imprenditoria mi indusse a stare tra gli ottimisti».
Pensa che i tempi siano maturi per un’analisi storica, oltre la lente deformante della polarizzazione?
«Temo di no e credo che una delle ragioni che rendono difficile ancora oggi un esame pacato di quella stagione stia nel fatto che si è trattato di un contrasto alla corruzione nato tutto da un’indagine giudiziaria, non da una reazione dal basso dei cittadini, che semmai si sono “accodati” in un secondo momento per un breve periodo. E dato che in Italia l’azione della magistratura in generale è percepita come un fatto “divisivo”, la polarizzazione resta».
Che cosa rimane di quel suo ottimismo?
«Un mio modo di essere di fondo, necessario a continuare questo lavoro. Ma credo che Mani pulite sia stata una grande occasione sprecata. Ciò che si era scoperto avrebbe potuto portare a modernizzare il Paese, rendendo la classe dirigente della Pubblica amministrazione più indipendente dalla politica, più qualificata, con una maggiore valorizzazione del merito e della correttezza. E invece mentre facevo il presidente dell’Anac vedevo gente condannata anche per reati gravi tornata come nulla fosse al proprio posto. Ha ragione il presidente Mattarella quando dice che la corruzione è “un furto di democrazia”. Purtroppo non abbiamo colto l’opportunità non di moralizzare il Paese ma di rendere più efficiente la nostra macchina: non è vero che la corruzione “olia”, “inceppa” perché il suo presupposto è creare l’ostacolo, non risolverlo».
Da presidente dell’Anac ha avuto un quadro completo. Come è cambiata la corruzione?
«Nel 1992 era una sorta di “tassa” illegale che la politica chiedeva per farsi finanziare, questo non vuol dire che non ci fosse anche l’arricchimento personale e quando non c’era si trattava comunque di drenaggio illecito di denaro pubblico. Il paradigma era chiaro: la politica gestiva il sistema, il mondo dell’imprenditoria ne dipendeva. Oggi la corruzione si è spostata dal versante politico a quello amministrativo: negli snodi delle attività produttive i burocrati contano più della politica. È un sistema più gelatinoso. Non sempre si vede chiaramente il pubblico ufficiale che si fa corrompere dal privato: entrambi spesso fanno parte di un’unica consorteria in cui il funzionario quando serve interviene perché ottiene incarichi, prebende, consulenze sottobanco, per sé, per il figlio... La maxitangente ora è rara. Forse anche per il calcolo che così si rischia meno, capita talora di riscontrare casi di una corruzione quasi “stracciona”, in cui ci si accontenta di poche migliaia di euro a fronte di un appalto milionario».
Oggi tra le altre cose si occupa di corruzione di magistrati. Casi come gli altri o diversi?
«Casi come gli altri durante le indagini, perché le garanzie vanno rispettate per tutti allo stesso modo. Casi più gravi una volta che il reato è accertato. Credo che il magistrato che si faccia corrompere andrebbe giudicato per qualcosa di simile all’alto tradimento, perché fa un danno enorme all’istituzione minando la fiducia dei cittadini».
Da che cosa lo coglie?
«Dal fatto che la mia scrivania è piena di esposti di cittadini che, anche senza alcuna prova, davanti a una sentenza che dà loro torto, sospettano quasi in automatico che sia frutto di comportamenti impropri. Il segno di una sfiducia patologica, come se non si mettesse più in conto che si possa perdere una causa perché ha ragione l’altro». Era patologico anche il tifo in piazza di 30 anni fa? «Sì, perché il cittadino tifoso ha attese destinate alla disillusione: il compito del magistrato non è fare giustizia genericamente, ma farla secondo la legge. Dobbiamo cercare colpevoli, non possiamo inventarli, né forzare le regole previste».
Come se ne esce, come si recupera la credibilità della magistratura?
«Non ho ricette, mi viene da dire: “fare il proprio dovere” per non tradire i cittadini che ancora credono nella giustizia. Mi sento di affermare che molti di noi lo fanno, ma non lo facciamo bene come istituzione se siamo monadi isolate più attente alla tutela di noi come singoli che di noi come magistratura. Per esempio, la prescrizione è una sconfitta, se il servizio che rendiamo non è in condizioni di rispondere in tempi ragionevoli, il senso del dovere dei singoli rischia di non bastare».