C’è un Paese che respira con un polmone solo e si chiama Italia. Lo svelano numeri gelidi come una diagnosi di morte presunta, firmati Ocse, Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. Dicono che il 52,9% dei nostri giovani ha un’occupazione “precaria”. Oltre la metà dei nostri ragazzi, cioè, vive in bilico, un piede dentro e uno fuori dal mercato del lavoro. I soldi a fine mese - pochi, maledetti e subito – ci sono oggi, domani chissà. Non solo: il malato è peggiorato. Nel 2000 la quota di precari era al 26,2%, la metà. Tradotto: chi oggi ha 20 anni è più precario di chi ne ha 30. E respira un futuro un po’ più asmatico.
Ci sono ovviamente mille modi per guardare un numero. Il primo è girarlo per girarci intorno. Su questi, troverete chi vi dirà che sono l’effetto di un sistema Paese che stenta a crescere (- 1,9% nel 2013) e fatica a creare lavoro per tutti (nel 2014 disoccupazione al 12,6%). Ci sarà chi invocherà la crisi globale, omettendo che la nostra è più grave di quella degli altri. Raramente troverete qualcuno - tra politici, accademici, imprenditori, sindacalisti - che vi dica: “Abbiamo fallito. Abbiamo sbagliato, ciascuno per la nostra parte di responsabilità. Abbiamo fatto male almeno queste cinque cose”:
- Considerare flessibilità e precarietà come sinonimi. Cosa non vera, almeno nell’Europa più evoluta, quella che abbina flessibilità e buoni ammortizzatori sociali (dicesi flexsecurity).
- Innestare corpose dosi di flessibilità in uscita (licenziare più facilmente) dimenticandoci di favorire la flessibilità in entrata (assumere più facilmente).
- Recitare come un mantra: dobbiamo “eliminare lacci e lacciuoli”come si fa in America, ignorando che negli States ci sono meno vincoli, ma è proprio un altro mondo. E non è detto che sia migliore.
- Ripetere ossessivamente che “con queste regole un imprenditore è ovvio che va altrove a investire”, dimenticando che sono proprio gli investimenti che sono mancati al Sistema Italia se solo si guardassero i numeri veri.
- Occuparsi solo dell’offerta di lavoro (i disoccupati) senza mai dire e fare nulla sulla domanda (le imprese) e sulla politica industriale, che in questo Paese latita da decenni
Alla luce di questi 5 motivi, a noi pare che i dati dell’Ocse non siano solo numeri, ma raccontino una storia. Il suo titolo suona più o meno: “Cari ragazzi vi abbiamo rubato il futuro”.
Lo abbiamo fatto, tutti noi, per sciatteria, pigrizia, malafede, ma lo abbiamo fatto. Abbiamo rotto il “patto generazionale” che sta al fondo di ogni società - e lega i vecchi e i giovani - e “il patto di comunità” - che lega il destino dei più abbienti a quello dei più indigenti.
Lo abbiamo fatto mentre ci riempivamo la bocca di epocali “riforme del lavoro” – la riforma Treu, il libro bianco di Sacconi, il nuovo ordine Fornero - fatte in modo parziale, senza visione né coraggio né investimenti. Vi abbiamo azzoppato la vita. E nessuno, nemmeno chi ha solo osservato e non "preso parte" al saccheggio, a questo punto, se ne può chiamare fuori.