Lui è ormai vecchio e “acciaccato”:
ottanta e passa anni e la dipendenza
da una macchina per mantenersi
in salute. Ma Giovanni è stato
un uomo d’acciaio, di quelli di
una volta, tutto d’un pezzo, un tipico imprenditore
del Nord, che si è fatto da solo
e che nel giro di quarant’anni ha messo
in piedi un’azienda di medie dimensioni,
che dà da vivere a oltre 40 persone. Produzioni
di qualità, capannoni raddoppiati
attorno agli anni Ottanta, un marchio e
un know-how riconosciuti in tutto il mondo.
E anche adesso che è “in pensione”
e i due figli Piero e Maria, quarantenni,
hanno preso in mano l’azienda, innovandola
e continuando a credere nel sogno
del padre, se arrivano in fabbrica certi
clienti o alle Fiere internazionali è ancora
lui, il patriarca, che vogliono vedere e
incontrare. Quasi che, sotto sotto, i figli
non siano mai considerati all’altezza del
vecchio imprenditore.
Lui si è fatto da parte da un paio d’anni,
con grande fatica, e non nascondendo
un certo risentimento per il fatto che i figli-
dirigenti della “sua” azienda non proseguono
i suoi metodi e prendono decisioni
che lui non avrebbe mai accettato.
E così, i rapporti personali qualche volta
si fanno difficili anche tra le pareti domestiche
e l’eredità del padre incombe sulle
spalle dei rampolli. Bocconi amari da
mandar giù; ma aiutano i valori che hanno
sempre cementato la vita di famiglia, che rigorosamente si raduna attorno alla
tavola della domenica, con figli, nuore,
generi e nipoti: il rispetto per i genitori,
tanta pazienza, e qualche volta l’umiltà
di tornare a interpellare il vecchio genitore
e chiedere consiglio.
Storie comuni, e non solo, nel difficile
campo del ricambio generazionale delle
imprese familiari. Storie di figli che sono
alle prese con la “pesante” eredità dei
loro padri; “grandi” padri, perché protagonisti
di vere e proprie imprese, o padri
“terribili” perché ricordati per atti criminali
o scandali epocali.
Le cronache hanno recentemente
portato alla ribalta il caso di un figlio “famoso”,
Angelo Provenzano, primogenito
di Bernardo, storico capomafia di Corleone,
da anni al carcere duro.
E lui, alle soglie dei 40 anni, ha scelto
di sfruttare la notorietà del suo cognome,
senza nulla concedere al dibattito e
alle considerazioni sul fenomeno mafioso,
per farne un’occasione di business.
In
sostanza, accogliendo l’idea di un tour operator americano, ha accettato di
entrare come pezzo forte di un pacchetto
originale per i ricchi e “curiosi” turisti
d’oltreoceano. Insieme a vitto, alloggio
e visite guidate alle bellezze naturali,
c’è anche la testimonianza diretta del figlio
del boss. Scelta che ha scatenato polemiche
di ogni tipo in Italia, soprattutto
nel ricordo di quanto sangue ha lasciato
per le strade l’impresa criminale di Provenzano.
Mentre Angelo minimizza: «Io
cerco soltanto una vita normale e questa
rappresenta un’opportunità professionale
nel campo del turismo.»
Eredità pesanti, dunque, cognomi famosi
che condizionano comunque la vita
dei figli. Pur con le loro qualità, e con
chance ed energie nuove, nella costruzione
del proprio futuro personale e professionale,
essi devono sempre fare i conti
con la storia di famiglia. E come fare?
Come gestire al meglio la notorietà ereditata
e la possibilità di mostrare il proprio
valore?
«Ci vuole dialogo, stima reciproca, disponibilità
al confronto» è la ricetta di un
“guru” della materia, quel Luis Iurcovich,
economista e sociologo, autore di Le
convivenze possibili in famiglia e nelle imprese
di famiglia (Franco Angeli, 144 pagine,
20 euro), scritto a quattro mani con il
figlio Ezequiel. Con lui gestisce “Trasversale”,
una società di consulenza di economia
applicata, con particolare attenzione al “passaggio generazionale”.
I due Iurcovich hanno messo a punto
una tecnica consolidata di analisi e gestione
dei rapporti affettivi e professionali
di padre e figlio, per risolvere al meglio
le crisi che si verificano quando le nuove
generazioni subentrano al padre-padrone
nella gestione dell’attività di famiglia.
Modelli che, per analogia, possono applicarsi
anche ad altri ambiti di vita.
«Occorrono intelligenza emotiva, definizione
dei ruoli, consapevolezza della
convenienza e delle opportunità del lavorare
insieme e anche volontà di fare insieme
», dice Iurcovich.
Ma quali sono gli ingredienti positivi
che facilitano i rapporti?
Perché le cose funzionino, bisogna
che i padri considerino i figli come una
“risorsa”, mentre ai figli è chiesto di nutrire
stima per ciò che i loro padri hanno
realizzato nella propria vita. «Se poi c’è
una conflittualità, non va ignorata, ma riconosciuta
e affrontata».
Altro elemento da non sottovalutare
è quello dei condizionamenti emotivi
e affettivi. E per gestirli, nella relazione
tra padre-padrone e figlio appare fondamentale
il ruolo femminile: «Madri
e mogli, che in molti casi non lavorano nell’impresa, hanno un forte ruolo come
mediatrici, collanti e scioglitrici di nodi e
tensioni, perché magari invitano il marito
a mutare determinati atteggiamenti e
poi spiegano al figlio altre situazioni...».
Valori in gioco? Dice il sociologo-padre:
«Trasferimento di conoscenza, volontà
di cedere, desiderio di condividere
e una certa propensione a fare da mentore
ai propri figli».
E il sociologo-figlio aggiunge:«Non si
tratta di favorire un passaggio di potere
dai vecchi ai giovani, ma di costruire un
rapporto “cogenerazionale” in cui tutti
trovino motivi di soddisfazione, lavorando
insieme con un interscambio continuo,
che si basa su due ingredienti ugualmente
necessari: il talento dei giovani e
l’esperienza degli adulti.»
È un’esperienza comune ad altri rampolli
dal cognome famoso, come Enrico
Moretti Polegato, oggi presidente di Diadora,
del gruppo Geox. In un convegno
promosso da Confindustria Umbria proprio
sul tema del passaggio generazionale
dell’azienda di famiglia, ha parlato
della sua esperienza come del «difficile
mestiere del figlio di un imprenditore di
successo», sottolineando però nel contempo
«le soddisfazioni che il mestiere di
imprenditore consente di raggiungere.»
Ma ci sono anche figli dal cognome
importante, che nella propria vita fanno
costantemente i conti con un’“eredità”
anche ideale e spirituale lasciata loro da
padri che hanno speso l’esistenza sotto
il segno dell’”eroismo”. Sono Mario Calabresi,
figlio del commissario Luigi ucciso
dai terroristi nel 1972; oppure Nando
Dalla Chiesa, che perse il padre generale
Carlo Alberto in un agguato mafioso
dieci anni dopo a Palermo; o ancora Benedetta
Tobagi, figlia del giornalista Walter
ammazzato quando lei aveva tre anni,
nel maggio 1980, dai terroristi.
Tre nomi, tre storie di figli che nella
professione scelta, di giornalista o sociologo,
e nella loro stessa identità di adulti
nel nostro tempo, continuano a essere
testimoni dei valori e delle lotte dei propri
genitori “famosi”. Un difficile lavoro
di riconciliazione con il proprio passato,
senza dimenticare le ferite inferte ma
con la capacità di tracciare strade nuove
e originali di convivenza possibile.