Il film è appena finito. Il rabbino capo di Milano Giuseppe Laras e il biblista monsignor Gianfranco Ravasi si affrettano fuori dalla saletta in cui hanno assistito, invitati da Famiglia Cristiana, a un’anteprima di La Passione di Cristo di Mel Gibson. Si affrettano: un po’ per arrivare presto in redazione, dove discuteranno del film; un po’ per prendere una boccata d’aria, dopo un’enormità di scudisciate, sangue e dolore.
«Da spettatore», esordisce Laras, «mi ha colpito tutta questa violenza, per la quale il primo aggettivo che mi viene è "terribile". Una violenza incredibile, inaudita, forse anche improbabile. Ma, al di là del giudizio di merito, mi preoccupa l’impatto che il film può avere sulle persone comuni: anch’io ho provato grande emozione, e questa visione delle sofferenze e della morte di Gesù può alimentare sentimenti antiebraici, rinfocolare queste tensioni, questi stereotipi, soprattutto nelle persone semplici, che poi sono la parte che ci interessa di più. Come accade nel dialogo tra ebrei e cristiani: quando esso si svolge a livello alto va tutto bene, ma quando deve calare in basso trova difficoltà, resistenze».
Laras, rabbino capo di Milano da 24 anni, entra nel vivo delle polemiche suscitate dal presunto antisemitismo del film di Gibson, ma le smorza, sinceramente preoccupato del fatto che tanto clamore possa soffocare il dialogo.
Meglio ascoltare il Papa
«Con tutto il rispetto», dice, «Mel Gibson non è un teologo, è un regista. Consiglierei di ascoltare il Papa, non lui. Il film è giocato sulla passione, cioè sull’aspetto della sofferenza e della morte di Gesù, e trascura il versante della risurrezione («È vero», interviene Ravasi: «Alla risurrezione sono dedicati i tre minuti finali su 126»). Se si voleva lanciare un messaggio, poteva essere un messaggio di vita e speranza. Credo che gli effetti potenziali di questo film siano antitetici al Concilio Vaticano II e al documento conciliare Nostra aetate: èun passo indietro rispetto a queste tappe che ci hanno aiutato ad andare avanti, a eliminare molte suggestioni. Noi dobbiamo impegnarci di più, spendere di più sul dialogo, nel senso di non lasciarci dividere, di incontrarci di più per riprendere il cammino insieme».
Il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni ha chiesto alla Chiesa di prendere le distanze dal film... «Io non mi sento di dire alla Chiesa che cosa deve fare», continua Laras. «Ma è vero che se si indicassero, da parte cristiana autorevole, i rischi che possono derivare dal film, questo potrebbe aiutare a evitare altre fratture. Con alcune dichiarazioni che ho letto si rischia di compromettere il cammino che faticosamente si è fatto. E non credo che ne valga la pena».
Monsignor Ravasi annuisce, condivide le preoccupazioni del rabbino. Ma porta il discorso all’interno del mondo cattolico. «Il film è l’occasione per porsi almeno tre questioni: quella storico-critica, quella teologica e quella artistica. La prima riguarda gli eventi in quanto tali. Molti oggi chiedono di ricostruire ciò che è accaduto in quelle ore. Noi dobbiamo rispondere, non dicendo: "L’avete visto nel film, quella è la verità". Dobbiamo tornare a studiare i Vangeli, perché c’è la tentazione di identificare il film con il testo evangelico».
«Poi c’è il percorso teologico», continua Ravasi. «È giustissimo ribadire, come fa il rabbino Laras, che Gibson non è un teologo. Il suo approccio è piuttosto ingenuo e la sua rilettura dei Vangeli è costruita secondo un orientamento tradizionale. Si vede dall’introduzione di elementi apocrifi, e soprattutto dalle citazioni (fino al particolare del nome del centurione, Abenedar) delle visioni della Emmerick. È una lettura della passione e della morte di Gesù con categorie della teologia tradizionale, anche nel senso di un po’ datata, in cui si pone tutto l’accento sull’aspetto sacrificale».
Un grande sacrificio tragico
«Questo è un elemento valido della teologia cattolica, ma non l’elemento esclusivo (e comunque, se lo si sceglie, poi si deve per forza sottolineare il sangue il più possibile), perché la teologia riconosce che la morte di Cristo è, in pratica, la scelta estrema di Dio di condividere la natura umana. Soffrire e morire sono categorie fondamentali dell’uomo, ma la partecipazione di Dio al dolore umano è un’esperienza d’amore, una scelta compiuta per assumere su di sé la sofferenza allo scopo di trasfigurarla. Questo film, invece, fa vedere solo un atto sacrificale drammatico, eroico, tragico, ma si nota poco la dimensione dell’amore: il progetto di Dio non è qualcosa di fatalistico per cui Gesù, schiacciato, è costretto ad andare avanti. I Vangeli, di cui non si rimpiange mai abbastanza la sobrietà, ci aiutano a capire questa dimensione. Lo scopo di Gesù non è diventare uomo per morire come un uomo, ma di far sì che la realtà umana, anche il dolore, sia trasfigurata».
Interviene il rabbino: «Il film trasmette un’idea opprimente del dolore. Sembra che ci sia compiacimento nel sottolineare il piacere sadico dei persecutori romani nell’infliggere la sofferenza. Ma noi dobbiamo sperare al di là di quello che suggerisce il film. È un’occasione mancata, Gibson poteva farci vedere un po’ più di vita dopo la morte e la sofferenza. Ma non bisogna dargli troppa importanza, è solo un film».
Riprende Ravasi: «Gibson ha scelto di parlare soltanto della passione. Ma ha ragione il rabbino: anche dal punto di vista cristiano, non si può arrivare solo fino alla crocifissione e alla tomba, e non parlare della Pasqua. Sono realtà intrecciate e l’ultima spiega le precedenti, permette di vedere che questo dramma non sfocia nella disperazione. A livello artistico ci sono elementi positivi: l’ammiccare alla storia dell’arte e il gioco degli sguardi, bellissimo. Per questo dobbiamo cercare di non avvitarci attorno alla polemica. Il rischio che segnala il rabbino esiste».
Tornare a parlare di Gesù
«È il rischio che la gente comune prenda su di sé questo supplizio, lo carichi e dica alla fine: "Maledetti quelli che hanno portato a questo", dimenticando che Nostra aetate dice realisticamente che il Sinedrio c’entra, ma che non tutti gli ebrei volevano uccidere Gesù. Trovo anch’io che l’eccesso narrativo della violenza non giovi al film. Si doveva cercare di dire, alla fine, una parola di speranza, che nei Vangeli è l’ultima parola».
Quindi il film è un’occasione mancata, come dice il rabbino Laras? «Siamo in una società mediatica», risponde Ravasi, «eventi come questo diventano quasi celebrazioni, e purtroppo possono avere un’eco maggiore dei discorsi del Papa. Allora, anziché metterci a condannarlo o a glorificarlo, partiamo dal film per tornare a incidere sulla conoscenza dei Vangeli da parte dei cristiani. È una grande opportunità per parlare di Gesù, ma stiamo attenti a non appiattirci sulla lettura che ne dà Gibson».