Il calcio è da anni pieno di iniziative antirazzismo studiate a tavolino. Mike Maignan, portiere del Milan, ha ragione quando scrive: «Abbiamo fatto annunci, campagne pubblicitarie, protocolli e non è cambiato nulla». Da anni la scritta “respect” gira sui tabelloni sui maxischermi degli stadi, ma l’effetto è quello di una foglia di fico, di un dovere compiuto senza troppo credere nelle magnifiche sorti e progressive che determinerà. Non ci si può accontentare del programmato, in cui nessuno si sporca le mani né si espone, non funziona se tutto muove solo dall’alto, da fuori, a mente fredda e bocce ferme.
Sono indispensabili le sanzioni, a posteriori, ma come ci insegna il diritto penale, di sola deterrenza non si fa crescere la civiltà di una società se non si lavora parallelamente anche sull’educazione. Nel calcio come altrove si educa con l’esempio più che con le prediche. Quando nella Liga è stato insultato Vinicius alla maniera di Maignan, Carlo Ancelotti, tecnico del Real, nonché unico allenatore a vincere un campionato in tutte le cinque più importanti leghe professionistiche europee, ha fatto notizia per aver rifiutato di parlare di calcio in conferenza stampa: «Non voglio parlare di calcio, La liga ha un problema di razzismo ed è più importante di una sconfitta. Non è ammissibile che si gridi scimmia a un giocatore». Se sono le voci autorevoli a farsi sentire, spontaneamente, qualcosa può cambiare in meglio; si può sperare che si smetta di ignorare una vergogna che si ripete, nelle curve dei professionisti ma anche nei campetti di periferia, tra i ragazzini, dove a volte sono i genitori a dare cattivo esempio.
Se ne parlano i Mike Maignan, se ne parlano i Carlo Ancelotti, prendendo una parola diretta al di fuori delle occasioni programmate, le loro voci fanno notizia. Se ci si ribella da dentro il campo, dal resto dello stadio, dall’interno delle società, senza ambiguità, c’è speranza che i violenti, i razzisti, gli insultatori di professione, che non sono la maggioranza, trovino un po’ più scomoda la propria posizione. Varrebbe e peserebbe tutto di più se a protestare per primi fossero coloro che si trovano proprio malgrado il tifo contro, becero e violento, a favore: non per caso ha fatto il giro del mondo il giorno della promozione del Cagliari il video di Claudio Ranieri, che ancora commosso, è andato sotto la propria curva, non a omaggiarla come a volte contro le regole si fa, ma ad attirare l’attenzione dei propri tifosi per far capire loro senza equivoci che non gradiva che fischiassero la tifoseria avversaria.
Il passo in più che ci vorrebbe è forse proprio questo: Se quel «Non nel mio nome» si diffondesse, sarebbe più difficile continuare. Nel 2019, interpellato sul tema, Fabio Capello aveva lanciato un’idea intelligente: la resistenza passiva: «In caso di cori razzisti, i giocatori dovrebbero sedersi in campo e aspettare, senza per questo subire delle sanzioni: così si aiuterebbe il pubblico sano e quelli che fanno i buu potrebbero smettere e vergognarsi di quello che stanno facendo».
Peccato che nessuno abbia avuto il coraggio di provarci. Ma non è troppo tardi, alla prossima partita, al prossimo coro indecente, si sarebbe ancora in tempo, se davvero si volesse.