Finalmente si vota, è il caso
di dirlo. La campagna referendaria
ha infatti totalmente
assorbito il dibattito
politico, mettendo in ombra
tutto il resto, con toni e
slogan fuori dalle righe, per
usare un eufemismo. Ma è
stata anche l’occasione per un salutare
dibattito sulla nostra Carta costituzionale.
Alla vigilia di quello che
è diventato un vero e proprio snodo
politico, ecco un piccolo vademecum
in forma di intervista per chi non ha
ancora le idee chiare.
Per che cosa andiamo a votare?
«Il referendum confermativo è
l’ultimo atto di una serie di passaggi
parlamentari che hanno portato alla
riforma della Costituzione. In caso di
vittoria del sì cambieremo 47 articoli,
più di un terzo della nostra Carta».
È previsto un quorum?
«Nessun quorum, prevale il maggior
numero dei sì o dei no».
Quali sono i punti principali della
riforma?
«Cardine del cosiddetto Disegno
di legge Renzi-Boschi è la trasformazione
del Senato. La legislazione ordinaria
spetterà solo alla Camera, che
rimane così com’è. Ma il Senato potrà
esprimere pareri sui progetti di legge
approvati dai deputati e proporre
modi che entro 30 giorni dall’approvazione:
in questi casi la Camera non
avrà l’obbligo di considerazione. Il Senato
continuerebbe però a legiferare
sulle riforme costituzionali, sulla tutela
delle minoranze linguistiche,
sulla disciplina dei referendum
popolari, sull’approvazione delle
normative e dei trattati comunitari,
sulle leggi del Senato e sull’assetto
istituzionale delle città metropolitane.
I senatori parteciperebbero anche
all’elezione del presidente della Repubblica
».
Chi fa parte del nuovo Senato?
«Il nuovo Senato non verrà eletto
dai cittadini, sarà un organo di rappresentanza
di Comuni e Regioni composto
solo da 100 senatori e non più dai
315 attuali. I 100 senatori verranno nominati
con questa composizione: 95
dai Consigli regionali, 5 dal presidente
della Repubblica (che li sceglierà fra
sindaci e consiglieri regionali). Scompaiono
i senatori a vita, con una sola
eccezione: gli ex presidenti della Repubblica.
I nuovi senatori non percepiranno
compenso, godranno dell’immunità
parlamentare (ma non da
consiglieri: resta un rebus come sarà
possibile distinguere i due momenti)
e si dedicheranno all’attività del Senato
svolgendo un doppio incarico: per
metà senatori e per metà consiglieri
regionali. Inoltre, si avvierà il processo
per l’abolizione delle Province e del
Consiglio nazionale dell’economia e
del lavoro. La riforma introdurrà anche
i referendum abrogativi e le proposte
di legge popolari, che richiederanno
però almeno 150 mila firme e
non più solo 50 mila. Inoltre verrà introdotto
l’obbligo di discussione delle
proposte di legge popolari. Sarà anche
possibile il referendum propositivo
che consentirà ai cittadini di chiedere
alla Camera di emanare nuove leggi».
Quali sono i vantaggi della riforma
secondo i suoi sostenitori?
«Il superamento del “bicameralismo
paritario”. Oggi le due Camere
hanno pari poteri e svolgono le stesse
identiche funzioni. Una sola Camera
non favorirebbe solo la celerità con
cui si producono le leggi ordinarie. C’è
chi ha fatto notare, come il politologo
Giorgio Campanini, che nella “navetta”
da un ramo all’altro del Parlamento
le posizioni si “scoloriscono” e alla fine
la legge finisce per avere molti padri
(o divenire addirittura orfana). Con la
riforma gli elettori saprebbero chi si è
assunto la responsabilità di una legge.
Diminuirebbero anche le eventuali
aggiunte o varianti (spesso per ragioni
lobbistiche o clientelari) che hanno
reso confuse o poco chiare le leggi».
Quali sono i punti più controversi
della riforma costituzionale?
«Uno degli articoli più criticati è
il numero 57 sulla composizione del
nuovo Senato. I senatori non vengono
eletti ma nominati in sede regionale o
tra i sindaci. Inoltre la doppia funzione finisce per divenire un pasticcio.
Il Governo parla di risparmi per 500
milioni l’anno. In realtà la Ragioneria
generale dello Stato ha calcolato un risparmio
effettivo, dovuto ai 215 senatori
in meno, di 49 milioni di euro. Altri
8,7 milioni vengono dalla chiusura
del Cnel. Secondo l’articolo 117 che riporta
allo Stato “le disposizioni generali
e comuni per la salute” i cittadini
di ogni Regione avranno accesso allo
stesso tipo di cure per malattie molto
gravi come tumore o vaccini. Ma per i
critici della riforma in realtà non cambia
nulla poiché quello che conta sono
i finanziamenti delle varie Regioni.
Altro punto controverso è l’articolo 70,
che da lapidario “La funzione legislativa
è esercitata collettivamente dalle
due Camere”, diventa, a giudizio di
molti, prolisso, complicato, di difficile
e controversa interpretazione e illeggibile
dai non addetti ai lavori. Molto
criticato anche il nuovo articolo 117
che sottrae alla volontà popolare tutte
le competenze europee».
Che cosa cambia per le Regioni?
«La riforma mette fine alla cosiddetta
legislazione concorrente, che regola
le competenze tra Stato e Regioni
a statuto ordinario su molte materie a
favore del primo (infrastrutture, energia,
ambiente, gestione dei trasporti,
produzione e distribuzione dell’energia,
politiche dell’occupazione, la sicurezza
sul lavoro eccetera). Pochi lo
hanno rilevato, ma con questa riforma
viene meno quel poco di federalismo
che c’era in Costituzione, riportando
a Roma gran parte dei poteri che
nel 2001 erano stati divisi a metà.
Il nuovo articolo 117 infatti introduce
una “clausola di supremazia” che
consegna allo Stato la “golden share”
ogni volta che lo ritiene opportuno.
Requiem per il federalismo, ma nessuno,
nemmeno i leghisti, sembrano
stracciarsi le vesti, dopo un ventennio
di dibattito nazionale che arrivò
a coinvolgere il centocinquantenario
dell’Unità d’Italia».
Quali critiche politiche sono state
mosse alle riforme?
«Il premier Matteo Renzi ha trasformato
il referendum in un plebiscito
pro o contro il suo Governo. Ma in
questo lo aveva già “aiutato” Grillo. C’è
chi ha sostenuto che una riforma costituzionale
di tale portata, che investe
così tanti poteri della Repubblica, aveva
bisogno di un consenso più ampio,
e non affidato solo alla maggioranza
di Governo. Inoltre, con un sì o un no
si viene chiamati a dare una risposta
a molteplici e diverse questioni. Ma
Renzi ha ribadito che la riforma è avvenuta
nel solco di quanto prescritto
dalla Costituzione e delle precedenti
riforme costituzionali».
Come si è schierato il mondo cattolico?
«Movimenti, associazioni, rappresentanti
delle istituzioni cattoliche,
intellettuali, opinionisti. Il mondo
cattolico andrà al voto diviso, essendosi
orientato su visioni opposte. La
Conferenza episcopale italiana ha invitato
i fedeli ad approfondire i temi
e ad andare a votare, ma senza schierarsi.
Una linea mantenuta da diversi
movimenti, come l’Azione cattolica, il
Movimento dei Focolari e Comunione
e liberazione. Anche il Forum famiglie
ha invitato a recarsi alle urne senza
però dare indicazioni di voto in favore del no o del sì. Schierati sul no ci sono
il presidente del Movimento cristiano
lavoratori Carlo Costalli e l’animatore
del Family Day Massimo Gandolfini,
che ha costituito un Comitato per il
no. A favore del sì il presidente delle
Acli Roberto Rossini e la rivista dei Gesuiti
Civiltà Cattolica».
L’Italicum, la nuova legge elettorale,
fa parte del referendum?
«No. Ma c’è chi vede nell’Italicum
un rischio autoritario secondo il “combinato
disposto” con le riforme costituzionali.
Prevedendo la nuova legge
il ballottaggio tra i primi due partiti,
in un sistema tripolare come il nostro
(Grillo, Renzi, Berlusconi e Salvini) c’è
il rischio che il vincitore si affermi
nell’unica Camera con appena il 15-20
per cento dei voti, controllando non
solo il Governo ma anche l’elezione
degli organi di garanzia (a cominciare
dalla Presidenza della Repubblica e
dai giudici costituzionali). La riforma
prevede quorum più alti proprio per
evitare questo rischio, ma solo nei primi
turni di elezione. Si è calcolato che
dal settimo scrutinio bastano 221 voti
per eleggere il capo dello Stato, in un
Parlamento in cui il primo partito ha
diritto a 340 deputati. Per questo c’è
chi perora il ritorno al proporzionale
per dar vita a un Governo di Grande
Coalizione, come quello tedesco».
Quali partiti sono per il sì?
«A favore della riforma sono la
maggioranza del Partito democratico
(la minoranza di Bersani e D’Alema ha
votato in Parlamento la riforma per
tutti e quattro i passaggi parlamentari
ma poi si è schierata per il no) e i centristi
di Alfano».
Quali partiti sono per il no?
«I Cinque Stelle, la Lega, Forza Italia,
Monti e, come detto, la minoranza Pd».
Che succede se vince il no?
«Gli scenari del no sono molto incerti.
Ma è chiaro che se il premier dovesse
dare seguito a quanto promesso
in caso di vittoria del no, il 5 dicembre
darebbe le dimissioni e aprirebbe una
crisi di Governo. Lo ha detto anche il
ministro Graziano Delrio: “Se vince
il no dobbiamo rimettere il mandato.
Poi sarà Mattarella a decidere il da
farsi”. A quel punto si aprono diverse
ipotesi: un nuovo mandato a Renzi, un
Governo tecnico, un Governo di scopo
(la nuova legge elettorale), lo scioglimento
delle Camere, una volta constatato
che non esiste una maggioranza
politica. Si aprirebbe una resa dei conti
anche all’interno della sinistra».
Che succede se vince il sì?
«Il sì dovrebbe dare più stabilità al
Governo. Ma c’è anche chi preconizza
che Renzi darebbe le dimissioni per
correre alle elezioni anticipate per
incassare la vittoria in termini di consenso
politico al Pd. La minoranza del
Pd di D’Alema e Bersani, schierata per
il no, darà vita a una scissione. D’Alema
ha dichiarato che se vince il sì scompare
il Pd e vanno al Governo i Cinque
Stelle».