C'è stato un periodo in
cui Nedo Fiano è stato
un numero. Un periodo
esatto, maggio
1944 - aprile 1945, in
cui un uomo viene trasformato
in un “mezzo
uomo”, in un prigioniero,
in un condannato.
Non aveva ancora vent’anni, Nedo,
e tutta una vita avanti a sé, limpida e
piena: il padre «alto e generoso», la
madre «dal volto dolcissimo», la piccola
pensione, il fratello, la scuola.
Scene di vita famigliare che Fiano
racconta nel suo libro autobiografico
A5405. Il coraggio di vivere (disponibile insieme a Famiglia Cristiana in edicola), dove ripercorre,
senza infingimenti e senza cercare
compassione, la sua esperienza
di deportato.
Conosco Fiano personalmente.
Per due volte l’ho accompagnato ad
Auschwitz nei “viaggi della memoria”
insieme con i ragazzi ai quali lui mai
smette di raccontare la sua terribile
esperienza. Fiorentino di nascita,
dopo la deportazione si è rifatto
lentamente una vita e poi ha scelto
di trasferirsi a Milano, non rinunciando
– e questo libro ne è testimonianza
– a un’opera di educazione che
è una scelta di vita.
Fiano racconta con ritmo inesorabile
la vita normale di un giovane fiorentino,
il padre addirittura iscritto
al Partito fascista, poi le leggi razziali
apprese da un articolo di giornale, la
cacciata da scuola, la paura, l’additamento
come paria dai vicini di casa,
lo sfiorire della dignità dai volti dei genitori, la fuga, l’arresto, la prigionia
e infine la deportazione.
Fiano trascorre alcuni mesi ad
Auschwitz, poi nella zona di Danzica,
poi in un altro campo nella Germania
centrale, fino alla liberazione. Scrive
che tra i motivi che lo salvarono – al
contrario di tutta la sua famiglia – ci
sono certamente la tempra fisica ma
anche l’ottimismo e la conoscenza
della lingua tedesca, insegnatagli dal
nonno. Al lavoro nel campo lui cantava,
malgrado il fumo che usciva
giorno e notte dalle camere a gas,
malgrado il ringhio dei cani delle SS,
malgrado le bastonate dei Kapos. E
alla fine, malato e malcurato, fu liberato
e poté fare ritorno alla vita,
in una Firenze piena di ombre che
non riusciva a riconoscere e che presto decise di abbandonare.
Il libro di Fiano è un colpo al cuore
perché lui non racconta di numeri,
ma di persone con nome e cognome,
di amici conosciuti oltre il filo spinato
che cadono nella neve, di una madre
abbracciata prima dell’addio finale,
di un padre che si trasforma sotto
i tuoi occhi e cede, di riccioli tagliati,
degli zoccoli rubati all’amico e della
sua morte per assideramento, della
ferita al piede e dell’operazione senza
anestesia, della lotta per il pane.
Eppure, anche se è un libro che
parla di morte, Fiano lo riempie di
vita, di colori, di profumi. Fiano ricorda
la campagna lussureggiante e
abbacinante dell’estate a Fossoli, nel
Modenese, da cui sarebbe partito in
un vagone piombato per Auschwitz,
il cielo color lavagna di Danzica, le
distese di neve, l’odore dell’arrosto
rigustato dopo mesi, il sapore delle
tagliatelle al termine della prigionia,
le barzellette, le risate, le canzoni, perché
«la vita può essere capita solo
all’indietro ma va vissuta soltanto
in avanti».
E quanta di questa vita è rimasta
dentro a Fiano, quanto lui, reduce, è
tornato a combattere e vivere pienamente,
a studiare, a sposarsi, a lavorare,
a diventare padre e nonno!
E
quanta di questa vita lui mette ogni
giorno, ogni anno, senza stancarsi,
nel parlare a centinaia di ragazzi,
nello spiegare cosa è accaduto,
nello scrivere libri e testimonianze perché la memoria non muoia.
Sono passati settant’anni da allora.
I testimoni diretti sono pochi, il
pericolo vero è che, scomparso questo
baluardo di memoria, su quanto avvenuto
cada il velo dell’oblio o peggio
dell’acquiescenza.
L’Autore all’inizio del libro cita un
passo del Libro di Gioele: «Raccontatelo
ai vostri figli e i figli vostri ai
loro figli e i loro figli alla generazione
seguente». E alla fine scrive: «Ho sentito
il dovere di dare il mio contributo
perché il filo della memoria resti
saldo nella storia del mondo per gli
uomini che verranno. Credo fermamente
nel dovere del ricordo perché il nostro passato è in qualche maniera
memoria del futuro».
Fiano è a suo modo scomodo. Perché
ci fa fare i conti con un passato
lontano e disturbante, perché ci dice
che l’uomo può essere anche un boia
nazista e che si può uccidere per gioco
e perché si ha fame più dell’altro.
Ma questo è un libro indispensabile.
Non ci si può trincerare dietro
un “io so già”: c’è sempre da scoprire
qualcosa di nuovo, anche se in questo
caso è qualcosa di agghiacciante
e straziante insieme, c’è sempre da
conoscere, da ricordare e tramandare.
Perché non ci può essere qualcuno
che trafuga il cartello metallico
recante l’iscrizione in tedesco “Arbeit
macht frei” (“Il lavoro rende liberi”)
all’ingresso dell’ex campo di sterminio.
Perché non può succedere che
alcuni giovani si divertano a farsi fotografare,
è successo nel 2009, con addosso
simboli nazisti e croci uncinate
rinvenuti a Dachau.
Auschwitz fa parte, una parte terribile,
della nostra storia. Che non
si può profanare. E dimenticare è la
peggiore profanazione. Parafrasando
un grande fiorentino che proprio da
poco tempo è stato iscritto tra i “Giusti
delle Nazioni” per le sue azioni che
permisero di salvare centinaia di ebrei,
Gino Bartali, possiamo dire che «gli
è tutto sbagliato, gli è tutto da ricordare». Perché non debba accadere di
nuovo. Perché gli uomini rimangano
uomini e non diventino numeri.
Matteo Renzi, presidente del Consiglio