Non è stata l’ennesima edizione della Leopolda, e nemmeno la riedizione della kermesse di fondazione del Partito democratico, anche se il teatro era proprio il Lingotto di Torino, “dove tutto era cominciato” dieci anni fa. I tre giorni del Congresso nazionale del Pd possono essere considerati una tappa intermedia, una fase di passaggio verso le primarie del 30 aprile per la segreteria del partito, una sorta di traversata del deserto renziana dopo la sconfitta del 4 dicembre. Sconfitta pesantissima, che ha provocato non solo le dimissioni del premier Matteo Renzi e la formazione di un nuovo governo, ma anche la fuoriuscita di una parte importante della dirigenza Pd, a cominciare dai “carissimi nemici” D’Alema e Bersani.
Dopo lo psicodramma dell’assemblea nazionale e le note vicende giudiziarie ricadute sul padre Tiziano abbiamo visto un Renzi più forte, persino meno appesantito, per nulla rassegnato, deciso a riprendersi il partito nel confronto con l’enfant prodige Orlando e il ras di partito Emiliano. Ed è molto probabile che la spunti: il ministro Guardasigilli non ha il carisma del segretario fiorentino. Quanto a Emiliano, trattasi di una sorta di “baco” interno teso solo a guadagnare visibilità politica, magari in vista di un bel ministero prossimo venturo come rendita di posizione.
“La partita inizia adesso - ha detto Matteo Renzi al Lingotto nel suo discorso finale-, la mozione sarà scritta la prossima settimana, ma c'è il progetto per il Paese noi non sappiamo se il futuro è maggioritario o proporzionale, abbiamo le nostro idee, ma dopo il 4 dicembre quel disegno di innovazione istituzionale è più debole, la forza delle nostre idee è il confronto con gli altri e allora vincerà chi sarà più forte in termini di progetti e proposte".
Renzi parla orgogliosamente di confronto perché sa che il Pd è rimasto l’ultimo partito sulla scena a fare congressi, croce e delizia dei “dem”, ad avere un minimo di democrazia interna, a essere dotato di sezioni, primarie, assemblee. Tutti gli altri, da Forza Italia ai Cinque Stelle, dalla Lega ai centristi, si basano sul carisma di un uomo solo al comando, non riuniscono neppure una direzione ristretta. In Forza Italia le cose si decidono nelle stanze di Palazzo Grazioli o Villa San Martino. Per i Cinque Stelle addirittura non si sa nemmeno chi e come decide. Un valore, certo, per il Pd, ma spesso anche un limite in tempi di comunicazione fulminea, di decisioni prese in pochi secondi, di messaggi basati sull'immagine, sulla semplificazione e sulla determinazione. Al Lingotto comunque si sono visti progetti interessanti, come quello dell'applauditissimo ministro Maurizio Martina, stella nascente all'interno del Pd, forse più di Orlando.
Martina propone di tassare le rendite finanziarie per raddoppiare il reddito di inclusione. Vedrà la luce? Così come non si sa se vedrà la luce la serie di emendamenti al disegno di legge delega (primo firmatario Stefano Lepri) teso ad aggregare i vari provvedimenti di supporto alle famiglie trasformandoli in un intervento unico. Un intervento che prevede un assegno mensile di 200 euro per chi ha un bambino con meno di tre anni, per diventare di 150 fino ai 18 e addirittura di 100 fino ai 25 (per redditi Isee fino a 70 mila euro). Ma che per il momento appartiene al libro dei sogni. Renzi non lo ha nemmeno citato nel suo discorso finale.
Ma al Lingotto il leader fiorentino ha fatto decisamente marcia indietro rispetto a quel Partito della Nazione liquido, poco incline al dibattito, molto basato sull’immagine e quasi più rivolto a destra che a sinistra, probabilmente spaventato della fuoriuscita dei dalemiani e dalla nascita, proprio nelle stesse ore, del Campo Progressista di Giuliano Pisapia. Il segretario uscente è parso muovere decisamente la barra a sinistra. Ha persino chiamato “compagni” i militanti e i dirigenti del Pd.
Quanto ai programmi elaborati dall’infinita serie di commissioni del workshop dobbiamo attendere la mozione definitiva ma si può prevedere che il "compagno" Renzi tenda a salvaguardare la sua idea “europeista” nella politica economica e nella gestione dei flussi migratori (quote di accoglienza e contenimento dei flussi attraverso la cooperazione nei Paesi di origine dei migranti) e naturalmente una serie di interventi per favorire l’occupazione. In platea era seduto il premier Gentiloni. Renzi pare abbia perso la smania di andare a elezioni anticipate ed è probabile che il suo successore resti in carica fino alla scadenza della legislatura. Ora si tratta di capire come la penserà il Paese reale. All’orizzonte intanto c’è una manovra straordinaria di tre miliardi di euro imposta dall’Europa. “Pensavo che il 4 dicembre fosse la fine di tutto, e invece è stato solo l’inizio”. Il giovane leader ha recuperato l’ottimismo. Il Paese ancora no.