Ognuno di noi nei suoi panni capirebbe l’asprezza, forse la voglia di vendetta. Perché nessuna persona che abbia salvato un barlume di civiltà se la sentirebbe di giudicare chi s’è affacciato, proprio malgrado, sull’orlo dell’abisso del Novecento come è accaduto a Liliana Segre, deportata poco più che bambina, con il padre ucciso in lager.
E invece no, Liliana Segre continua a contrappore all’odio che ha vissuto la sua tenace gentilezza, la sua testimonianza pacata, la sua battaglia a bassa voce contro le parole ostili. Perche sa, avendolo già vissuto, che fanno presto a diventare pietre. Sono il suo tono, la sua pacatezza, il suo garbo, la sua antica contesia a rendere, se possibile, ancora più forte la testimonianza dei fatti nudi e crudi che racconta, più autorevole la sua lezione.
Se è stanca, a 89 anni potrebbe, non lo dà a vedere. Per la tenacia dolce e caparbia con cui scommette sull’educazione nonostante tutto Famiglia Cristiana l’ha scelta nel 2019 come italiana dell’anno. Di fronte agli insulti e all’odio antisemita, anche 200 messaggi al giorno, che le si riversa contro, si prova rabbia e disgusto, si vorrebbe gridare fino a sovrastarli, mentre lei commenta con il solito tono, mai sopra le righe: «Sono persone per cui avere pena e vanno curate». Si capisce che questa pacatezza le viene naturale: «Sono una persona civile», replica a chi glielo fa notare, «non conosco altro linguaggio che quello». A chi le chiede se c’è speranza risponde: «Ogni minuto va goduto e sofferto, bisogna studiare, vedere le cose belle che abbiamo intorno, combattere quelle brutte, ma perdere tempo a scrivere a una 90enne per augurarle la morte... Tanto c'è già la natura che ci pensa».
Basterebbe questa sola ultima frase per segnare la voragine tra la grandezza della sua forza tranquilla e l’altrui imbecillità. Ma è nella penultima frase che si legge la parola magica «studiare», l’unico antidoto all’ignoranza che si nasconde dietro il nickname di leoni da tastiera, codardi quanto anonimi, che cercano nella gratuità dell’insulto un posto nel mondo.
Nel farle arrivare l’abbraccio di Fc, ripetiamo a noi stessi, con l’ottimismo della volontà, che forse «non sanno quello che fanno», ma intanto dobbiamo sforzarci di fare quadrato attorno a lei perché sappiano, perché aprano gli occhi. Non dobbiamo stancarci di contrastare con lei l’odio verbale che ci circonda, di rifiutare i miasmi di questo parlare disumano cui c’è pericolo di assuefarsi per ignavia, perché nessuno possa di nuovo dire un giorno, con Primo Levi: «Considerate se questo è un uomo… considerate se questa è una donna». Dobbiamo farlo ora, nel quotidiano, perché dopo sarà troppo tardi.